Forse gli appassionati visitatori del sito, adusi all’hard-gossip e alle magagne del potere, saranno sorpresi nell’apprendere che la prolusione di Dago, intitolata "The history of now", è un denso Tractatus sulla rivoluzione tecnologica e il cambio di paradigma sulla scena pubblica, con alti riferimenti a McLuhan, Benjamin, Sontag, Lacan, Arendt, Eco, Debord e Piero Della Francesca. Si finisce con un aforisma di Einstein.
Ma come è cominciata?
«È cominciata con gli hippy, "make peace, not war", quei giovanotti californiani che suonavano la chitarra e si facevano le canne. Sono loro che hanno chiuso i conti col Novecento, le ideologie, le guerre, la lotta per il potere. Volevano solo starsene per conto loro, liberi, free. Così si sono inventati un’altra realtà, fatta di emozioni ed esercitata su uno strumento, il pc, che avrebbe cambiato la testa delle persone. Il potere non se n’è accorto, d’altra parte da "accannati" se ne fregavano, nemmeno lo volevano. Così li ha lasciati fare».
E tu, nel frattempo?
«Io con la politica ho smesso nel 1977, dopo aver visto un corteo che assalì un’armeria, roba da Far West. Mi restava la musica, feci il dj in una discoteca "per compagni", il Titan. Era arrivato il punk mentre il rock si frantumava in tanti stili — rockabilly, disco, new wave, metal — quanti cominciavano a essere i tagli e le sfumature dei capelli».
Quando cominci a diventare Dago?
«Con l’assessore Nicolini e l’Estate romana, utopia di riconciliazione. Organizzai una manifestazione a Villa Ada: "Alla ricerca del ballo perduto". È qui che una generazione passa di colpo dalla politica totalizzante all’hully gully, facendo pace con il suo passato e scoprendosi fatta di individui, ciascuno con il proprio look, parola allora del tutto sconosciuta che prefigurava un modo di presentarsi attraverso abiti, acconciature, barbe, tatuaggi».
La capì Renzo Arbore, che ti lanciò in tv a "Quelli della notte".
«Quel suo pubblico andava formandosi come una community basata su un mix di musica, umorismo, costume, cultura. Vestito come un clown, mettevo in scena la "Look parade", individuazione che oggi potremmo dire antropologica di modelli umani: l’intellettuale triste, il gay con la gonna, quello che girava con L’insostenibile leggerezza dell’essere, libro che salvò il fatturato dell’Adelphi, ma che non avevo manco letto. Improvvisammo il primo casting a Villa Borghese, con gente di passaggio. L’esperimento era dentro quel tempo. Visti oggi, gli anni 80 sono decisivi sul piano tecnologico, guai a ridurli ai craxiani, se Bettino rubava o non rubava».
Come e quando arriva Dagospia?
«Attraverso una disavventura. Tenevo una rubrica di indiscrezioni sull’Espresso, "Spia". Dopo l’improvvisa sconfitta di Luna Rossa riportai come perfino in Nuova Zelanda l’avessero attribuita all’invidia e ai poteri negativi dell’Avvocato. Quanto bastò a sopprimere "Spia". Ritrovatomi nelle peste, c’era questo Internet: il logo con la bomba di Dagospia lo ripresi dalla "O" del McIntosh quando andava in palla. Giravo con il biglietto da visita e l’indirizzo del sito. Nessuno credeva al web».
La notizia che ti ha messo nel giro grosso dell’informazione.
«Quando pubblicai che Tatò, numero uno dell’Enel, voleva comprarsi TeleMontecarlo per affidarla alla compagna, cosa che poi non accadde, ma perché era scoppiato il finimondo. Ma chi altri avrebbe potuto scriverlo? Cominciai ad andare alle cene dove affari, potere, costume, fatterelli di sesso viaggiavano insieme senza che nessuno mai ne scrivesse. Poi l’incontro con Cossiga: prese a darmi le dritte con quel suo stile allusivo che un "cossigologo" provetto, il giornalista Nando Proietti, riusciva a decifrare. L’ex Picconatore mi portò nel mondo dei poteri veri, quelli che stanno sotto e resistono a ogni cambio, il deep State».
Dago, ci credi ai complotti?
«No, di norma il complotto accade quando è già successo».
Hai paura della democrazia autoritaria?
«È impossibile con la rete: se si tappa un buco, se ne apre subito un altro».
Cosa hanno rappresentato i "Cafonal"?
«Una estetica senza la quale non ci sarebbero state altre visioni come La grande bellezza».
Comporta qualcosa che Dagospia sia gratis?
«Anche in questo c’entra la rete e la sua origine: "free" vuol dire "libero", ma anche "gratis"».
Cosa voterai il 26 maggio?
«Non voto. La domenica delle elezioni vado sempre a Porta Portese».
Ci sarà un video di Oxford?
«Sicuro, “Dago goes to Oxford”».