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 2019  maggio 07 Martedì calendario

Intervista a Carlo Cottarelli

«Ecco, appunto. È bastato poco…». Carlo Cottarelli non si sorprende più di tanto alla notizia del l’impennata mattutina dello spread e dello scivolone di Piazza Affari che, a fine giornata, sarà la Borsa peggiore in Europa. Niente di nuovo per lui che è stato “mister spending review” (il regista dei tagli della spesa pubblica a palazzo Chigi), ha trascorso buona parte della carriera al Fondo monetario internazionale e, giusto un anno fa, è stato per tre giorni premier incaricato prima di cedere il passo a Giuseppe Conte e al contratto di governo firmato da Matteo Salvini e Luigi Di Maio: «Siamo davanti all’ennesima prova della fragilità del nostro Paese» spiega Cottarelli aggiornandosi in tempo reale sull’andamento dei mercati.

Scusi professore, si rischia una guerra commerciale planetaria e lei sminuisce?
«Guardi, qui non si tratta di sminuire. L’emergenza di un possibile, grande scontro sui dazi c’è ed è importante. Ma io resto ottimista. Credo si tratti ancora soltanto di una schermaglia tattica in vista della negoziazione tra Stati Uniti e Cina. Vedremo cosa succederà. Comunque non mi sembra un fattore di rischio per l’economia mondiale paragonabile a ciò che si scatenò con la crisi finanziaria del 2008. Quanto accadde a partire dal crac della Lehman Brothers è irripetibile. Quello che si ripresenta puntualmente, però, è il problema della nostra fragilità».
Cosa rappresenta per l’Italia, di diverso da tutti gli altri Paesi, la minaccia di Donald Trump sui dazi?
«Rappresenta un rischio di attacco speculativo. Mi spiego: qualsivoglia fattore di indebolimento del ciclo economico mondiale, tipo il rallentamento della crescita americana, farebbe tornare il nostro Paese in recessione. E lo dico in particolare considerando la fase nella quale ci troviamo proprio adesso, perché i dati statistici mostrano che sono solo le esportazioni a trainare la nostra economia, mentre la domanda interna langue. Dunque una eventuale guerra commerciale sarebbe per noi davvero pesante».
Non crede che le tensioni tra Stati Uniti e Cina siano l’ennesima prova di come stia mutando l’equilibrio geopolitico mondiale e di uno"scontro di civiltà" per l’egemonia politica ed economica? In fondo anche l’Europa in preda al sovranismo è un segnale in questo senso…
«Io penso che si tratti degli effetti della crisi del multilateralismo. Per dire, organismi come l’Onu o, a livello economico, come il Fondo monetario o la Banca mondiale, stanno progressivamente perdendo il proprio peso e, di riflesso, stanno emergendo i nazionalismi in tutto il mondo. Ecco perché si va verso conflitti, speriamo solo economici, tra Stati».
Ma nulla accade per caso, non crede?
«Infatti. È la conseguenza di una globalizzazione che è stata rapida. Forse troppo rapida, anche se non si può tornare indietro. Cambiamenti che hanno creato insicurezza e timori ai quali si è reagito con la fuga dal multilateralismo».
La globalizzazione, se non altro, ha avuto il merito di alzare l’asticella del benessere per popolazioni fino a qualche anno fa emarginate.
«Certo, la globalizzazione ha affrancato dalla povertà milioni di persone nel mondo, ma nello stesso tempo ha impoverito il ceto medio nella stragrande maggioranza dei Paesi. Insomma, un grande problema di redistribuzione».
Pensa anche all’Italia?
«Il nostro Paese rappresenta un caso particolare tra le nazioni avanzate: altrove il reddito pro capite è comunque cresciuto. Di poco, ma è cresciuto. Qui da noi invece siamo fermi ai livelli di vent’anni fa».
Anche per questo siamo esposti alla speculazione?
«A parte il caso della Grecia, abbiamo le finanze pubbliche più deboli tra tutti i Paesi dell’euro. E questo per colpa dell’enorme debito pubblico e di una crescita che non c’è. Così, come è successo nel 2011 e nel 2012, ogni volta che ci sono tensioni sui mercati, all’estero ci si chiede se l’Italia non stia magari pensando di reagire alla propria crisi abbandonando la moneta unica».
Quello dell’uscita dall’euro è uno scenario che andava molto di voga prima e durante la nascita del governo gialloverde. Poi una volta entrati a Palazzo Chigi, Lega e M5S sembrano aver derubricato la questione. Teme che il tema torni alla ribalta in vista del voto europeo di fine maggio?
«Dico soltanto che vedo, in giro, una pericolosa sottovalutazione dei rischi ai quali è sottoposta l’economia italiana».
Su cosa avrebbe puntato se, un anno fa, fosse diventato premier?
«Sulle vere riforme. Quella della burocrazia e quella della giustizia civile. E poi avrei affrontato una volta per tutte il problema del livello di tassazione che, in Italia, è più alto di qualsiasi altro Paese europeo».