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 2019  maggio 07 Martedì calendario

La cambiale che dovremo pagare

Pil ancor più in caduta, spread in salita, rincaro dei mutui, meno esportazioni, meno investimenti delle multinazionali dall’estero, una manovra d’autunno più difficile da realizzare senza azzoppare ancora di più l’economia. La guerra dei dazi rischia di diventare uno shock, al pari di Brexit e crisi greca, in grado di mettere in ginocchio l’Italia. Il Paese potrebbe essere chiamato a pagare in un paio di anni una cambiale da quasi 93 miliardi, tra effetto dazi, richieste di Bruxelles e pretesa del governo di introdurre la flat tax.
Ancora meno Pil
La guerra dei dazi è già costata lo scorso anno 1,7 miliardi all’Italia. E se scoppierà su tutti i fronti comprese le sanzioni americane contro la Ue – il pedaggio potrebbe salire (stime del centro studi Confindustria) a 8,5 miliardi entro il 2021. Le scaramucce commerciali degli ultimi mesi hanno già sforbiciato la crescita mondiale, scesa dal 3,8% del primo semestre 2018 al 3,2% del secondo. E l’Fmi ha appena tagliato dello 0,4 le stime sul 2019, dando la colpa alle tensioni tra Usa, Cina ed Europa.
Quali sono i rischi per il nostro Paese? Se il focolaio di crisi rimanesse isolato al braccio di ferro tra Washington e Pechino, la situazione sarebbe gestibile: secondo l’ufficio studi di Confindustria, anzi, nel primo anno di dazi il Pil italiano potrebbe avere un piccolo effetto positivo. Tendenza che si invertirebbe (di poco) in negativo nei due anni successivi. Se a fine maggio invece Donald Trump concretizzasse i dazi all’Europa gli effetti per l’Italia sarebbero ben più gravi: per Confindustria perderemmo lo 0,5 del Pil in due anni. «Il danno per la nostra manifattura è scontato», commenta Andrea Montanino, capo economista di Viale dell’Astronomia.

L’effetto-incertezza
Gli shock geopolitici come la guerra dei dazi o la Brexit generano incertezza. La conseguenza è normalmente un aumento dei tassi d’interesse e una maggiore vulnerabilità per chi ha debiti, dalle aziende alle famiglie. Fino ad oggi, sebbene le misure protezionistiche siano state più minacciate che attuate, l’effetto c’è stato: sul commercio mondiale, sul Pil e sugli investimenti esteri delle multinazionali. Un ennesimo colpo sui mercati finanziari, innescato da una escalation del confronto Usa-Cina, potrebbe surriscaldare lo spread: attualmente veleggiamo intorno a quota 260, se si salisse di 100 punti in più il costo in termini di tassi d’interesse per i conti pubblici, secondo Antonio Forte del Cer, sarebbe di quasi 750 milioni per la restante parte di quest’anno e 7,7 per il prossimo biennio 2020-2021 (complessivamente 8,45 miliardi).Mutui e credito al consumo La pressione al rialzo già c’è.
Come ha dimostrato il “Rapporto sulla stabilità finanziaria”, pubblicato la scorsa settimana dalla Banca d’Italia, il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato ha fatto aumentare i mutui a tasso fisso, dal settembre scorso, di mezzo punto percentuale: se lo spread, ad esempio, aumentasse di altri 50 punti i mutui a tasso fisso subirebbero un aumento complessivo di 3,5-4 miliardi. Con l’aumento dello spread rischiano anche i debitori più deboli: famiglie povere che hanno fatto ricorso al credito al consumo per la lavatrice, lo scooter o il frigorifero oppure imprese con bilancio già zoppicante.

Manovra più difficile
Solo per evitare l’aumento dell’Iva servono 23 miliardi, con le richieste di Bruxelles si sale a 33 e con la flat tax si superano abbondantemente i 45 miliardi per il 2020. Secondo la Corte dei Conti, nel 2021, serviranno altri 30 miliardi: totale nel biennio 63 miliardi (al netto delle iniziative del governo). Una stangata che l’economia italiana già con un Pil intorno allo “zero” non è in grado di sopportare. Anzi, ridotto il canale dell’export che fino ad oggi ha sostenuto la nostra economia, bisognerà tutelare la domanda interna e rilanciare i consumi.

Si “piega” l’export
Anche su questo fronte i focolai di guerra commerciale rischiano di far pagare all’Italia – che vende all’estero il 50% di quello che produce – un pedaggio salato. Uno studio interno di Prometeia stima (nello scenario peggiore di un conflitto tariffario globale) un calo delle esportazioni italiane del 2%. In soldoni, circa 9 miliardi. Un effetto “incertezza”, del resto, si vede già oggi. La crescita dell’export verso gli Stati Uniti è passata dal +8,6% del 2017 al +5% del 2018. Quella verso la Cina ha addirittura cambiato segno algebrico, passando dal +15,7% al – 1,4%.

Vincitori e vinti
In caso di conflitto commerciale limitato al fronte Usa-Cina, vincerebbero le piastrelle, la moda di fascia media, il tessile e la meccanica italiana, che diventerebbero più competitivi negli States rispetto ai rivali di Pechino. A perdere sarebbe invece la componentistica auto. Se scoppia il conflitto commerciale globale, invece, molti cavalli di battaglia del made in Italy sarebbero a rischio: il Prosecco e il Campari, per dire, minacciati dai balzelli di Trump, Leonardo che faticherebbe a vendere i suoi elicotteri, l’olio d’oliva, il pecorino (i 2/3 della produzione vanno negli Usa). Il 50% dei 4,3 miliardi di prodotti alimentari venduti agli Usa sarebbe colpito da dazi.