La Stampa, 7 maggio 2019
Glifosate, la storia infinita
Prendi il mostro e «sbattilo in prima pagina». Poco importa se con il tempo ci si accorge che forse si è esagerato. Il danno è fatto e l’opinione pubblica continuerà a pensare che il peggiore mostro è sempre lui. Stiamo parlando del glifosate, il diserbante da tempo al centro del dibattito pubblico in merito alla sua possibile cancerogenicità, un interrogativo a cui non è stata ancora data una risposta definitiva.
Nonostante le prove nell’uomo indichino che entro certi limiti è possibile utilizzare la sostanza, alcuni scienziati - uniti ad una comunicazione non sempre all’altezza - pubblicano analisi «distorte», contribuendo a rafforzare il preconcetto sul glifosate. Ultimo esempio in ordine di tempo è uno studio su «Scientific Reports», le cui conclusioni hanno suscitato parecchi dubbi, non solo di natura scientifica, riaprendo il sempiterno dibattito sul metodo di valutazione degli studi scientifici e della loro comunicazione al grande pubblico.
«Il glifosate - spiega Enrico Bucci, biologo, professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia e studioso del problema delle fake news nella scienza - è un diserbante utilizzato in agricoltura a partire dagli Anni 70. Sviluppata dalla Monsanto, è la molecola più utilizzata al mondo per via del profilo tossicologico favorevole rispetto a tanti altri erbicidi». Negli ultimi anni, però, a causa di alcuni studi che avevano messo in luce una presunta cancerogenicità negli animali, è diventato oggetto di un vero e proprio caso mondiale, in cui gruppi di ricercatori e di ecologisti chiedono la sua messa al bando.
«Una crociata - sottolinea Bucci - basata però non su dati oggettivi, bensì su una loro manipolazione e distorsione». Ed è questo il caso, l’ultimo di una serie, dello studio di Michael Skinner della Washington University, pubblicato da «Scientific Reports», rivista del gruppo «Nature». Un’analisi dal giudizio tranciante: nei ratti il glifosate avrebbe una serie di effetti sulle generazioni future, causando problemi molto seri alla salute. Una conclusione che farebbe allarmare chiunque.
Il condizionale in questo caso è d’obbligo, perché, controllando con attenzione, lo studio presenta più di una criticità. Ad affermarlo è un report della Rete informale SeTA Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura, un network di ricercatori, docenti, tecnici e agricoltori. «Innanzitutto - spiega Bucci - dose e via di somministrazione utilizzate nella sperimentazione sono non soltanto di molto in eccesso rispetto alle massime esposizioni consentite dalla legge, ma anche rispetto a valori realistici di esposizione». Il report afferma, inoltre, «l’esistenza di pregiudizi di selezione sistematici e di errori anche grossolani nelle statistiche presentate e, perfino, addizioni errate». Ma c’è di più: «Questo studio, con dati che paiono manipolati come altri precedenti, risulta essere finanziato da una fondazione, la John Templeton Foundation, già nota per sostenere tesi di pseudoscienza come, per esempio, quelle sul clima e sulle cellule staminali. Un particolare che, soprattutto da un punto di vista giornalistico, non dovrebbe essere sottovalutato».
Un caso, dunque, di cattiva scienza, dove a salire sul banco degli imputati è anche il mondo delle riviste scientifiche ed in particolare il sistema di «peer-review». «Scientific Reports», rivista-contenitore da 25 mila articoli l’anno, non sembrerebbe aver garantito le giuste revisioni. «Premesso che la pubblicazione su una rivista scientifica non implica che un lavoro sia definitivo o che qualcosa sia provato, la vicenda ci insegna a dubitare fortemente dell’attendibilità delle ricerche di un gruppo che, sistematicamente, cerca di dimostrare la tossicità intergenerazionale di pesticidi, interferenti endocrini, fungicidi, diserbanti e carburanti - “i composti bandiera” dell’ambientalismo ideologico - con manipolazioni di vario genere», conclude Bucci.
Ma la battaglia sul glifosate e sulla corretta informazione non finisce qui: nei giorni scorsi l’Epa, l’Agenzia per l’ambiente statunitense, ha ribadito nuovamente l’assenza di rischio sul glifosato, se utilizzato correttamente nelle dosi consigliate. Non solo. A chiarire nuovamente la posizione ci ha pensato il Ccgp, il Comitato sui principi generali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ente che si occupa dal 1963 di salvaguardare la salute di 189 Paesi, compresi quelli dell’Ue. Nell’ultima riunione, tenutasi a marzo a Bordeaux, il comitato si è mostrato preoccupato della sovrapposizione e della confusione che deriva dalle divergenze tra le valutazioni tossicologiche condotte in tema di cancerogenesi dalla Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, che ha inserito il glifosate tra i probabili cancerogeni. «Un messaggio - commenta Roberto Defez, ricercatore del’Istituto di Bioscienze e Biorisorse del Cnr di Napoli - che esprime chiaramente un concetto: il compito della Iarc è valutare il pericolo di una determinata sostanza. Per la valutazione del rischio occorrono altre competenze». La sovrapposizione di questi due concetti diversi, uniti alla «mala-scienza» e ad una comunicazione non sempre chiara, continuerà ad essere il combustibile delle crociate contro qualsiasi sostanza.