il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2019
Zanda ritira
Nicola Zingaretti ha capito che il disegno di legge di Luigi Zanda sulle indennità ai parlamentari non era sostenibile per il Pd in campagna elettorale. E così, un paio di giorni fa, ha chiesto al tesoriere che si è scelto di ritirarlo. Cosa che lui ha fatto ieri, dopo averlo annunciato in un’intervista al Corriere della Sera. Nel dettaglio, Zanda aveva depositato la sua proposta il 27 febbraio, pochi giorni prima delle primarie del Pd. Una volta uscita fuori la notizia, non erano mancate le polemiche. Ma niente, il ddl era ancora lì: tanto è vero che era stato incardinato in commissione Affari costituzionali il 15 aprile. La proposta voleva equiparare i compensi dei parlamentari italiani a quelli europei. L’aumento tecnicamente non era sullo stipendio effettivo (l’i n d e n n ità), ma sulla cosiddetta diaria, ovvero sul rimborso spese giornaliero (che poi da sempre è la vera materia del contendere), e altre voci. Nel dettaglio, lo stipendio sarebbe passato da 10.385,31 euro a 8.757,70 euro. E la diaria da 7.240 euro a 9.313 euro, cui aggiungere spese di viaggio e collaboratori pagati a parte (mentre oggi il loro stipendio deve uscire dal contributo fisso). PER I 5 STELLE, la riforma avrebbe portato a un aumento dello stipendio annuo di circa 72mila euro per ogni parlamentare: un irrinunciabile argomento di campagna elettorale. Zanda si è difeso giocando sull’ambiguità tra indennità e diaria: “Di Maio è il vicepresidente del Consiglio e deve smetterla di raccontare bugie. Sostiene che io, chiedendo di equiparare gli emolumenti dei parlamentari italiani a quelli europei, vorrei aumentare quelli di senatori e deputati italiani. È falso. Il mio disegno di legge non li aumenta nemmeno di un euro, anzi li diminuisce. Il mio ddl prevede, soprattutto, che il nostro sistema applichi quella trasparenza che c’è nel parlamento europeo”. E i calcoli sono stati smentiti da una batteria di parlamentari dem, che sono intervenuti uno dietro l’altro. “Quelli del Pd non ce la possono fare. Ne fanno una dietro l’altra”, è stata la risposta via Facebook del vicepremier Di Maio che ha definito “kafkiana” la decisione del tesoriere dem di querelarlo dopo aver ritirato il suo ddl. Zingaretti, dal canto suo, quando era venuta fuori l’esistenza del disegno di legge ci aveva tenuto a chiarire che non era una proposta del Pd. Posizione difficilmente sostenibile, visto che il tesoriere è di fatto il numero 3 del partito. Poi giovedì scorso s’è ritrovato a telefonare in diretta a Piazza Pulita per replicare al sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, che s’era presentato in studio con dei cartelli per “spiegare” le proposte del Pd: aumento dello stipendio dei parlamentari, reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti e reintroduzione dei vitalizi. “Noi non proponiamo né di alzare gli stipendi dei parlamentari né di ripristinare i vitalizi”, aveva replicato Zingaretti: “Quella legge (quella presentata da Zanda, ndr) non propone l’aumento dello stipendio dei parlamentari, ma propone un adeguamento con le indennità dei parlamentari europei”. E aveva annunciato di voler presentare “una legge sulla trasparenza, su come si finanziano tutti i partiti, anche sul web”. NON È BASTATO.Alla fine, Zingaretti si è deciso a chiedere al tesoriere il ritiro. Troppo tardi e in maniera maldestra, come fa notare la minoranza fu renziana: “Finisce un’altra bufala dei 5 Stelle: non era previsto nessun aumento degli stipendi dei parlamentari, ma solo elementi di trasparenza e di passi in avanti per far decidere un corpo terzo sullo stipendio dei parlamentari”, ha dichiarato ieri il segretario dem, dopo che il suo tesoriere aveva annunciato querela nei confronti di Luigi Di Maio, “reo” di diffondere falsità. Il resto è polemica politica. Da notare Ugo Sposetti, storico tesoriere dei Ds, che – definendosi “l’ultimo giapponese” – difende a spada tratta la proposta. E non solo l’uomo del “tesoro del Pci”, anche i collaboratori parlamentari sono scontenti. “L’annunciato ritiro del ddl Zanda sugli emolumenti dei parlamentari lascia intatta l’urgenza di sanare l’anomalia europea della mancata regolazione dei contratti dei collaboratori parlamentari italiani”, afferma José De Falco, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari (Aicp): “Quel ddl aveva il pregio di prevedere che le amministrazioni delle Camere dovessero farsi carico degli oneri dei contratti dei collaboratori”. Per tenersi più grosse porzioni del contributo fisso versato dal Parlamento, infatti, spesso i parlamentari pagano poco o nulla i loro “portaborse”. Le conseguenze della casta. © RIP