Corriere della Sera, 6 maggio 2019
Intervista a Roger Federer
Tanta gente in coda per un rito pagano, a Madrid, non si vedeva dall’abdicazione di re Juan Carlos al figlio Felipe. Qui, sulla terra battuta degli esperimenti del boss del torneo, Ion Tiriac (i campi blu, subito abbandonati, e le modelle-raccattapalle, entrate a regime), dopo due anni e 358 giorni Roger Federer torna a calpestare il rosso (ultima apparizione gli ottavi con Thiem a Roma 2016), un colore che non gli ha mai donato: solo uno dei suoi 20 titoli Slam, infatti, il Roland Garros 2009 (tradito da Nadal ma l’eccezionale narrazione dei destini incrociati di Rafa e Roger è un’altra storia), gli ha sporcato i calzini. E così, di fronte all’avvento del migliore, il Mutua Madrid Open, Master 1000 che si gioca alla vigilia degli Internazionali di Roma, è diventato luogo di pellegrinaggio. Nessuna occasione di vedere dal vivo il 38enne (l’8 agosto, auguri) che ha riscritto le regole del tennis va sprecata.
Ed eccolo, Roger che se fosse nato 250 km più a sud si chiamerebbe Ruggero, l’esperienza più sovrannaturale che lo sport moderno preveda, nello splendore del suo nasone a patata, dei peli sul petto che sfuggono dalla maglietta nera (grazie Mirka per non avergli mai imposto una ceretta), del ciuffo sempre più rado da sistemare con carezze delle mani capaci di gesti bianchi.
Scusi l’ovvietà, Federer, ma alla sua età, avendo vinto tutto, chi glielo fa fare di affrontare in braghe corte rivali di quasi vent’anni più giovani?
«Facile. La passione per il tennis, immutata, e la convinzione di poter ancora migliorare. Dettagli, ovvio. Particolari qua e là. Il mio, sostanzialmente, è un lavoro di mantenimento ad alto livello: c’è ben poco, a questo punto, da inventarsi. Ma progressi, minimi, ci sono. E mi piace lavorarci sopra. È una sfida con me stesso. Come tornare a giocare sulla terra dopo tre anni: le scivolate, gli scambi da fondo, la palla più arrotata... Questo tipo di tennis mi mancava. Che funzioni ancora in partita è tutto da verificare!».
Lei che è considerato l’eleganza fatta a persona, cosa ritiene elegante?
«Credo che nell’immaginario che mi accompagna abbia un ruolo chiave il rovescio a una mano. Elegante, per me, è cercare di essere educato in campo e nella vita, con l’avversario e con i miei figli. Elegante è incarnare il tennis nel modo giusto ed essere considerato il ponte tra la vecchia e la nuova generazione di tennisti. A Parigi, quest’anno, compirò vent’anni di Roland Garros. Nel 1999 c’ero già. Biondo, che orrore, ma c’ero».
Si elucubra sul giorno del suo ritiro, che non potrà mai essere banale. Lei come se lo immagina?
«Imperfetto. Chi l’ha detto che dovrò ritirarmi il giorno in cui vinco un altro Slam, ammesso che accada? Chi ha detto che dovrà essere un finale da favola? In realtà, potrebbe succedere in molti modi. In vacanza, e non torno più. A un torneo qualsiasi, annunciandolo a sorpresa. Purché sia alle mie condizioni, cioè non dettato da un infortunio, andrà bene. Se avessi inseguito la fiaba, avrei già smesso. Ma sull’argomento sono molto rilassato, le assicuro. Chiudere la carriera non sarà un dramma».
Cosa la ispira e motiva, dopo tutto questo tempo?
«Da quando ho 6 anni giocare a tennis è la cosa che più mi piace fare al mondo. Ho una moglie fantastica, un team che mi supporta, vinco ancora qualche match dentro stadi pieni di tifo e passione. Non le basta?».
Sembra una soluzione troppo scontata per un dilemma importante.
«Le questioni complicate hanno spesso soluzioni facili. Amo quello che faccio. E considero la tribù del tennis la mia seconda famiglia».
La sua connessione con la gente va oltre una tecnica sopraffina, però.
«Mi piace paragonarmi a un musicista in tournée. Vado dove il pubblico mi vuole. E, a differenza dei calciatori, ricevo solo applausi: è difficile sentire fischiare un tennista. Per non parlare dei buuu razzisti, che da noi non esistono. C’è un’etichetta che sopravvive, per fortuna. Sono fortunato: a queste condizioni è più facile creare empatia con la gente. E quando sono arrabbiato o demoralizzato ho la mia faccia da poker, rodata negli anni, da indossare in campo».
Se potesse essere qualcun altro per 24 ore, se potesse sperimentare il gusto di una vita altrui, chi vorrebbe essere?
«Me lo chiedo, ogni tanto. Com’è la vera normalità di un impiegato? Sono diventato molto bravo a uscire dalle porte girevoli del mestiere di campione di tennis per entrare nella vita di marito e padre, a casa, lontano dalla pazza folla. Quella è la mia esistenza normale, ma poi finisce. E ricominciano Roland Garros, Wimbledon, la vita da globetrotter. Com’è farsi un drink senza essere riconosciuti? Questo tipo di quotidianità mi manca».
Forse l’unico modo di sperimentarla è allontanarsi molto dalle abitudini, cambiare mondo.
«L’anno scorso sono andato in Zambia per la mia Fondazione, che ha compiuto 15 anni di attività. I bambini di una scuola mi hanno chiesto che lavoro facessi. Il tennista, ho risposto. Con le racchettine e il piccolo campo? mi hanno incalzato. No, no, quello è il ping pong! Insomma, in quel villaggio nessuno sapeva chi fossi. Per loro ero semplicemente un filantropo in incognito. È stato meraviglioso».
Tra dieci anni come si immagina?
«Padre di due ragazze ventenni e di due maschi quindicenni, che mi daranno molto da fare. In missione per la mia Fondazione: con mamma, che la dirige, abbiamo molti progetti in mente. E coinvolto ancora nel tennis, magari come mentore di giovani talenti».
Lei appartiene all’esclusivo Club della Longevità con Valentino Rossi, 40 anni, e Gigi Buffon, 41. Vi sentite? Vi motivate a vicenda?
«Ho il cellulare di entrambi ma non condividiamo nessuna chat su WhatsApp. Quando fanno cose eccezionali, cioè spesso, vorrei chiamarli ma poi temo di disturbare. Per me del club farà sempre parte Francesco Totti, anche se ha smesso. Mi piace l’idea di ispirarci a vicenda, di fare il tifo l’uno per l’altro a distanza».
Il suo capolavoro assoluto? Ne scelga uno.
(Lunga riflessione con la testa tra le mani) «Uh, che domanda difficile. Se devo proprio scegliere, direi la finale dell’Australian Open 2017. Perché ha tutti gli ingredienti di un evento irripetibile: io che torno dopo un lungo infortunio senza sapere cosa aspettarmi, una densità di colpi vincenti nel quinto set di cui mi stupisco ancora oggi, Nadal dall’altra parte della rete. È surreale pensare di aver vinto quel torneo».
Qual è l’eredità che lascerà al tennis, Roger?
«Più che un gran tennista, ammetto che mi piacerebbe essere ricordato come un bravo tipo, uno che nel suo sport ha dato tutto, a prescindere dai tornei che ha vinto».
Alla fine confessi: dopo gli spot con lo chef Oldani, ha imparato a mettere in tavola un piatto decente di spaghetti?
«Lì recitavo: tutto il lavoro lo faceva lui! Gli ultimi spaghetti che ho cucinato per la mia famiglia erano decisamente scotti... Ecco un buon proposito per il futuro: migliorare come cuoco».