Corriere della Sera, 6 maggio 2019
Il documentario su John McEnroe
Un documentario su John McEnroe? Sarebbe svilire questo film inaspettato e sorprendente che usa il grande campione statunitense per riflettere sulla genialità, sullo sport, sulla perfezione, ma anche sul cinema e sulle sue regole.
Lo mette in chiaro fin dai primissimi secondi, quando sullo schermo appare una delle celebri frasi a effetto di Jean-Luc Godard – «Il cinema mente, lo sport no» – mentre la voce del narratore (di Mathieu Amalric) aggiunge che «un film didattico» fa parte del cinema come i film di guerra o le commedie. Un genere tra i tanti. In effetti la definizione «didattico» potrebbe suonare strana ma è il regista Julien Faraut a spiegare: documentarista e archivista dell’Institut national du sport, un giorno scopre le riprese che Gil de Kermadec, primo direttore tecnico della nazionale francese di tennis, aveva effettuato a partire dal 1966.
Ore e ore di film per documentare la tecnica e lo stile dei grandi campioni di tennis che si sfidavano sulla terra rossa del Roland Garros: un lavoro certosino, che si disinteressava delle partite ma si concentrava sui giocatori per rubarne i segreti e le caratteristiche sportive, e che poi diede origine a una serie di ritratti dei singoli campioni che venivano a Parigi a sfidarsi (il suo ruolo gli permetteva di effettuare riprese che su altri campi gli sarebbero state proibite). È qui, tra questo materiale, che Faraut trova i filmati di McEnroe ed è su di lui che indirizza il suo doppio lavoro, di documentarista sportivo ma anche di teorico del cinema.
E da qui nasce McEnroe – L’impero della perfezione, che è un omaggio alla straordinaria tecnica del tennista americano, alla facilità con cui realizzava colpi che agli avversari richiedevano maggiore fatica: le scene che esaminano il suo servizio, così «naturale» eppure così complesso (come dimostra la scomposizione dei movimenti fatta da de Kermadec con l’aiuto dell’animazione) sono grandi lezioni tecnico-teoriche, così come le immagini delle sue smorzate, delle sue discese sotto rete, delle sue risposte.
Ma sono anche stimoli per una riflessione sulla tecnica delle riprese, sul linguaggio delle immagini, sul percorso che porterà il documentario a diventare qualcos’altro (come faranno Douglas Gordon e Philippe Parreno con Zidane, un ritratto del XXI secolo).
Faraut a volte sembra divertirsi a imitare McEnroe, interrompendo il flusso del film come il tennista interrompeva le gare per discutere (e litigare) con i giudici, a dimenticare l’obiettivo didattico per inseguirne uno più spettacolare, ma di fatto riallacciandosi in questo modo a quella passione tutta francese che unisce spettacolo e sport, critica cinematografica e critica sportiva e che ha avuto in Serge Daney il suo paladino (critico di cinema ai Cahiers e poi a Libération, ha scritto articoli straordinari di tennis anche sulle pagine sportive del quotidiano parigino). Ed è da questo incrocio che nascono le qualità più interessanti del film, quando messa da parte l’analisi tecnica, Faraut si interroga sul comportamento di McEnroe, sulla sua proverbiale litigiosità dietro cui vede un altrettanto proverbiale bisogno di perfezione.
Il film tira in ballo anche la psicologia clinica e le sue teorie per spiegare la capacità di controllare i suoi eccessi di furore e di tornare concentratissimo al gioco dopo una sfuriata per una svista arbitrale.
Ma il vero obiettivo di quei discorsi applicati a McEnroe è quello di avvicinarsi al segreto della sua genialità, per spiegare la capacità di affrontare le contraddizioni del suo carattere e poi incanalare quell’energia così apparentemente incontrollabile in una capacità di gioco fuori dal normale. Senza essere mai davvero soddisfatto, senza mai un vero sorriso. Come probabilmente fanno i veri geni, sempre alla ricerca di una nuova perfezione. E come solo le sconfitte sanno mettere in evidenza, come quella che il tennista statunitense dovette subire al Roland Garros nel 1985, battuto da Ivan Lendl dopo che lo aveva dominato nei primi due set. E che chiude il film come a suggerire che la perfezione non sarebbe tale se fosse senza errori.