Corriere della Sera, 6 maggio 2019
Intervista a Giuseppe Pignatone
Mercoledì il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone lascerà il suo incarico, dopo sette anni e due mesi, e la magistratura, dopo 45 anni di carriera, nel pieno del conflitto tra politica e giustizia. Riaccesosi anche a causa di alcune indagini condotte dal suo ufficio, come sul caso Siri.
«Di indagini in corso però non parlo», premette.
Ma il contrasto tra magistratura e politica è fisiologico o in Italia è diventato un fenomeno patologico?
«Se dura da decenni, seppure in forme diverse, si deve ritenere che ci siano ragioni strutturali, al di là delle scelte o delle colpe di alcuni protagonisti che pure esistono. C’è la posizione costituzionale della magistratura, indipendente dagli altri poteri e dalle loro esigenze; e c’è la tendenza, diffusa in tutto l’Occidente, ad ampliare il ruolo dei giudici, affidando loro la soluzione di problemi di natura istituzionale, economica o addirittura etica che la politica non sa o non vuole risolvere. Il nostro, poi, è da sempre un Paese profondamente diviso, in cui si continua a negare legittimazione all’avversario politico e non si rinunzia a usare contro di lui il risultato delle indagini, a prescindere dal loro esito finale».
È il motivo per cui a ogni avviso di garanzia, arresto o sentenza scoppia una polemica?
«È uno dei motivi. Anche perché il nostro sistema processuale sembra fatto apposta per alimentare il conflitto. La scelta garantista di avere tre gradi di giudizio ha un costo inevitabile in termini di possibile contrasto tra le successive decisioni e di durata dei procedimenti, aggravata poi dall’incredibile carenza di risorse; mentre la tutela del diritto di difesa impone la discovery, e quindi la conoscenza, degli atti processuali anche in fasi iniziali delle indagini».
C’entra anche un uso eccessivo delle intercettazioni?
«Spesso si dimentica che le ultime due legislature ne hanno esteso l’uso proprio ai reati di corruzione, anche con le tecnologie più moderne, della cui invasività ci accorgiamo ogni giorno di più. Io comunque, ben prima delle modifiche legislative, ho invitato colleghi e polizia giudiziaria a essere particolarmente rigorosi nella selezione delle intercettazioni da utilizzare. Così come ho introdotto criteri più stringenti per l’iscrizione degli indagati la cui notizia, di per sé sola, è spesso causa di discredito e danni sociali».
Confermando la fama di magistrato prudente, che però non le è bastata ad evitare le accuse di influenzare la politica attraverso le inchieste.
«Io ho cercato di essere prudente nel senso della virtù cardinale di cui parla Papa Francesco, “non per stare fermo ma per portare avanti le cose, che inclina a ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che devono stare alla base del giudizio”. Una virtù da esercitare prescindendo da vedute personali e dai propri convincimenti ideologici. Per usare le parole di Falcone al Csm quando fu accusato di tenere le prove nei cassetti: “Non si può ragionare: io contesto il reato e poi si vede”. Naturalmente questo è l’obiettivo, non sta a me dire quanto sia riuscito a raggiungerlo. Però dev’essere chiaro che noi abbiamo il dovere di perseguire i reati facendo tutte le indagini necessarie. Quanto alle critiche vanno accettate, specie da chi esercita un potere: a volte forniscono utili spunti di riflessione, a volte servono per esercitare la virtù della pazienza; quelle che lei indica, mi sembra rientrino nella seconda categoria».
Ha ragione chi sostiene che pure i magistrati devono avere attenzione agli «equilibri istituzionali»?
«Penso che tutte le istituzioni e i loro rappresentanti meritino rispetto, così come lo chiediamo noi magistrati. Per questo vanno evitati l’esasperazione dei contrasti e ciò che serve solo a produrre discredito, cercando invece di collaborare, come ad esempio credo sia avvenuto nel caso Regeni. Fermo restando, ripeto, che quando sono emersi reati anche in ambiti istituzionali li abbiamo perseguiti come nei confronti di chiunque, e che la responsabilità penale è personale».
Ma i familiari di Regeni riusciranno mai a avere giustizia?
«Alcuni risultati li abbiamo ottenuti, sventando depistaggi e calunnie. E com’è avvenuto con l’ultima rogatoria inoltrata, la Procura continua a cercare la verità e a sollecitare indagini, che però solo gli inquirenti egiziani possono svolgere».
Avete messo tre sindaci sotto processo e condotto inchieste che hanno fatto molto rumore, da Consip al progetto del nuovo stadio, fino a Siri; sono il sintomo di un potere inaffidabile a prescindere dall’identità politica di chi lo esercita?
«I casi citati sono molto eterogenei e non bastano per formulare conclusioni. Se ne potrebbero prendere in considerazione molti altri, ma io credo che alla fine tutto dipenda dalla singola persona e dalle sue scelte».
Prima del suo arrivo la Procura di Roma era considerata un «porto delle nebbie».
«Non so se fosse una definizione giustificata. So di avere trovato un ufficio consapevole della necessità di profondi cambiamenti, e molti colleghi di grande qualità professionale, tanti addirittura eccezionale, che molto soffrivano quella nomea; hanno rapidamente condiviso le mie convinzioni, frutto delle mie esperienze, sull’importanza del lavoro di squadra; sulla condivisione di conoscenze e professionalità diverse; sulle indagini condotte, per i fatti più importanti, seguendo strategie investigative di largo respiro e non limitate ai singoli episodi; sull’assenza di pregiudizi positivi o negativi: non ci sono santuari intoccabili, ma nemmeno colpevoli a priori. E anche le forze di polizia hanno accettato e lealmente attuato questo programma di lavoro».
Uno dei processi-simbolo della sua gestione è stato quello a «Mafia capitale», foriero di tante polemiche. Ha mai pensato di aver esagerato con l’accusa di associazione mafiosa?
«Sinceramente no. Molte sentenze, alcune già definitive, riconoscono la natura mafiosa di un’associazione quando si prova il ricorso al metodo mafioso. La Cassazione le ha definite “piccole mafie”; fermo restando che, come ho sempre detto, Roma non è una città mafiosa nel senso che è dominata dalle mafie. E poi mi lasci dire: noi non giochiamo con la libertà e i diritti fondamentali dei cittadini e qualcuno finge di dimenticare che il pubblico ministero può fare richieste ma sono i giudici che in totale indipendenza decidono intercettazioni, misure cautelari e condanne».
Come ha vissuto l’inchiesta e il processo a carico di alcuni carabinieri per la morte di Stefano Cucchi, e la scoperta dei depistaggi?
«Anche in altri casi abbiamo dimostrato che lo Stato è capace di indagare su se stesso, e non è superfluo dire che queste sono le indagini che non vorremmo mai dover fare, e che a volte ci fanno personalmente soffrire. In questo caso credo incida nell’opinione pubblica anche un sentimento di straordinaria solidarietà umana per la vittima e i suoi familiari, anche per il loro comportamento in tutti questi anni; il fatto che per proteggere i reali colpevoli siano state a lungo accusate persone del tutto innocenti, e infine che i responsabili siano – se le accuse saranno provate – militari, e anche ufficiali, dell’Arma dei carabinieri, una istituzione verso cui gli italiani hanno sempre avuto, con ragione, fiducia e rispetto. Noi per primi siamo stati sorpresi da alcuni esiti delle indagini, condotte anche in questa vicenda gravissima con il massimo impegno e senza pregiudizi di alcun genere».
Prima di approdare a Roma lei ha trascorso gran parte della carriera in Sicilia, la sua terra, attraversando stagioni drammatiche segnate da guerre di mafia, delitti eccellenti e stragi. Quali sentimenti e ricordi si porta dietro, di quel periodo?
«In questo momento voglio solo ricordare i moltissimi, di tutte le categorie sociali, che nei momenti più terribili hanno continuato a lavorare chiedendosi se non sarebbero stati proprio loro i prossimi a cadere. E i familiari di tante, troppe vittime venuti a chiederci giustizia per i loro cari con disperazione, con dignità, con fiducia, con rabbia, a volte insultandoci. Quando, non sempre, siamo riusciti a dare loro risposta, è stato un bel giorno».
Che bilancio fa della sua lunga attività di pubblico ministero, nel momento di lasciare la toga?
«È impossibile farlo in poche battute. Ho vissuto esperienze umane e professionali straordinarie e, come altri, ho pagato prezzi personali e familiari non indifferenti. Ne è valsa la pena nella misura in cui, insieme a tanti altri, siamo stati utili alla collettività, in tempi e contesti estremamente difficili. E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate».