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 2019  maggio 06 Lunedì calendario

Intervista al direttore del Festival di Cannes

Con l’arrivo in extremis di Quentin Tarantino (e i divi Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie), le quattro ore di sesso cinefilo di Abdellatif Kechiche ( Mektoub my love - Intermezzo) e una serie di richiami pop che spaziano da Maradona a Elton John, il cartellone di Cannes 72 è pronto e si preannuncia in grado di catalizzare l’attenzione mondiale. A nove giorni dal via il delegato generale, leggi direttore, Thierry Frémaux affronta scelte e novità, la questione Netflix, la rivalità con Venezia e il futuro del cinema, che è anche donna.
Frémaux, qual è la missione di questo festival?
«È un’edizione in cui si danno appuntamento da ogni parte del mondo tutti quelli che hanno girato film nel 2018 e 2019. Portano opere di ogni forma e tipo. Dodici giorni di spettacolo totale. Cannes mette il cinema al centro del mondo, questa è la sua missione».
"Il traditore" di Marco Bellocchio su Buscetta è l’unico italiano in concorso.
«È un film molto riuscito. È bello a livello formale e ha un contenuto potente. Il cinema di Bellocchio è un racconto generale dell’Italia. Dopo gli anni Settanta e Aldo Moro, a quasi 80 anni il regista affronta la questione della mafia, la criminalità, la politica, la droga, ma anche il pentimento e la famiglia. Il film racconta l’archeologia della violenza, spiega le origini di quella che vediamo ovunque ora, soprattutto legata a droga e corruzione. Aggiungo che Pierfrancesco Favino è assolutamente magistrale».
C’erano altri italiani che voleva?
«Non parlo mai di film che non selezioniamo. Quella italiana è una cinematografia importante, mi emoziona il fatto che Nanni Moretti sia di nuovo sul set, aspetto il ritorno di Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, è un piacere accogliere Alice Rohrwacher in giuria. Abbiamo anche molti film italiani a Cannes Classics. Aggiungo che avevamo parlato molto con Pietro Marcello del suo Martin Eden, che è il mio libro preferito. Non vedo l’ora di vederlo in autunno».
Come cambia Cannes negli anni?
«Ha rivoluzionato le regole dei festival, aperto a film di genere, documentari e cartoon, che in passato non erano ospitati. Dobbiamo essere pronti a scuotere le abitudini. Come Venezia, Cannes muta ogni anno e dopo un decennio ci rendiamo conto che non è più lo stesso. Un festival è al servizio dell’evoluzione del cinema. E ognuno ha le sue strategie per rimanere al top».
C’è una maggiore presenza di registe.
«Quindici nella selezione ufficiale, una grande soddisfazione. E molte nelle giurie. Il manifesto di Cannes è su Agnès Varda: siamo tristi per la sua scomparsa e vogliamo onorarla, ma anche ricordare che tanto tempo fa lei e poche altre - Ida Lupino, Lina Wertmüller, Liliana Cavani, Margarethe von Trotta, sono state a lungo da sole. Non è più così. C’è molto da fare, vanno imposte regole, ad esempio nelle scuole di cinema. Ma d’altra parte il destino delle autrici non è separabile da quello delle donne nella società: mi piacerebbe che questa discussione che ci fosse tutto l’anno e ovunque, non solo a maggio e a Cannes».
Alla fine siete riusciti ad agguantare Tarantino, che fa la differenza.
«Era importante che ci fosse. È un figlio di Cannes, non ci ha mai mollato. Come con Bastardi senza gloria, che fu pronto all’ultimo minuto, C’era una volta. a... Hollywood, che esce a luglio, ha richiesto un lungo lavoro di montaggio. Ma ci sarà, come Abdel Kechiche: quest’anno Cannes è imperdibile».
Dopo Netflix arriveranno altri giganti, lo scenario cambierà. In Francia le finestre tra uscita in sala e in streaming sono davvero lunghe.
«È un nuovo mondo. È ovvio che i regolamenti francesi sono molto restrittivi e tutto questo si evolverà negli anni a venire. Allo stesso tempo, il vero dibattito sulla questione della piattaforma non c’è ancora stato e per me deve prima concentrarsi su due argomenti: la creazione e la formazione di giovani generazioni capaci di apprezzare il grande schermo».
Ma qualche serie a Cannes c’è. Questanno, quella di Nicolas Winding Refn. A lei quali piacciono?
«Non ne vedo molte, preferisco iniziare a ripassarmi tutto Eisenstein, Kurosawa e Billy Wilder. Ma passerò l’estate a vedere Trono di spade perché, come si dice, "non voglio morire stupido". In seguito, vedremo se ilTrono sarà in grado di resistere alla prova del tempo come La strada, I sette samurai o I 400 colpi, di cui quest’anno si celebrano i sessant’anni con la nascita della Nouvelle Vague».
La maggiore differenza artistica tra una serie e un film?
«La durata. Una serie mi dice in 15 ore e tre stagioni quello che il cinema racconta in due ore e un solo appuntamento. E la definizione: un film è celluloide per il grande schermo, una serie è un’opera da piccolo schermo, prodotta in modo industriale, scritta per tenere alta l’attenzione a ogni puntata. E poi il cinema punta più sui registi, la serie su sceneggiatura, attori, primi piani. Gli inesorabili di John Huston è fatto solo di campi lunghi, non si può goderlo in tv, come Apocalypse Now o La dolce vita».
Con Venezia e Alberto Barbera avete sempre mantenuto relazioni di reciproco rispetto.
«È ancora così. La Mostra è un gran festival».
C’è più tensione, oggi?
«No, perché? Parliamo molto con Alberto. Comprendo pienamente la recente strategia di Venezia di fare affidamento sul cinema americano e sulla stagione degli Oscar. Ciò consente loro di ottenere stampa e film americani. Cannes è in una posizione diversa: ospitiamo il cinema mondiale e non dobbiamo concentrarci a maggio su una serata di gala del cinema americano che si terrà a febbraio dell’anno dopo».
Il momento più difficile per lei in questi anni?
«Non ci sono momenti difficili, solo emozionanti. Come dice Woody Allen rispetto al sesso, "anche quando non va bene, va bene" Cannes è lo stesso».
Come vede il cinema tra dieci anni?
«Nel 2020 celebreremo, da Lione, il 125esimo anniversario dell’invenzione del cinematografo. Il cinema è quella luce che anche tra cent’anni continuerà a ispirare tutti coloro che vogliono raccontare storie su uno schermo».