Appuntamento in tribunale
Lo scontro comincerà l’ 11 giugno, presidente Fulvio Accurso, che viene dalla corte d’appello di Reggio e ha fama di garantista, e a latere due donne, Cristina Foti, di prima nomina, e Anita Carughi, con fama di dura. «Ma lì, quel processo sarà anche alla Procura e certamente alla prefettura di Reggio», concordano i tanti giudici calabresi che in questi giorni abbiamo visto o sentito, tutti con la promessa dell’anonimato «voi capite, spero». È questa l’abitudine dei magistrati italiani: parlano con i giornalisti ma off the records, come i Mandarini, come i Porporati.
Comunque il giudizio è unanime: D’Alessio non è uomo da lasciarsi comandare dalla destra di Salvini, anche se tutti notano la sproporzione delle misure contro Lucano, specie dopo il ridimensionamento, prima del Gip e poi della Cassazione, delle accuse iniziali. Perché dunque l’accanimento? Esiste il peccato di esagerazione? Dante punisce gli eccessivi (incontinenti) nel basso Inferno, ma fuori dalla terribile città di Dite con le mura di ferro perché, gli spiega Virgilio, è il peccato che "men Dio offende". Ma Virgilio nulla sapeva di Lucano, che era in tutto il mondo giudicato virtuoso, da Fortune, dall’Ècole Normale, dai sindaci di Parigi e Barcellona, da Wim Wenders, Fiorello, dal Mazzotta di Montalbano… E con la benevolenza privata di Papa Francesco.
«Quando abbiamo concesso al sindaco Lucano di acquisire al Comune un immobile sulla spiaggia di Riace, che era stato sequestrato al mafioso Liuzzi, esprimemmo una valutazione, morale e amministrativa, molto positiva» conferma il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci che divide, anche lui, il proprio cuore tra legalità e accoglienza, tra legge e solidarietà. C’è un gran dibattito, non solo tra i giudici, sul processo che dividerà l’Italia molto più di un derby di calcio, con la sinistra giustizialista per la prima volta schierata con le destre, quella che il garantismo va bene solo per Berlusconi e quella di Salvini e del suo Siri. E ci sarà pure una tifoseria transgenica che muterà indirizzo in continuazione, gioendo per la supremazia del diritto e allo stesso tempo soffrendo per la mortificazione della solidarietà e dell’accoglienza, che però "sono doveri" diceva Rodotà.
Dunque sarà un processo dell’Italia a se stessa, come furono i processi a Don Milani, a Danilo Dolci, a Pierpaolo Pasolini, a Enzo Tortora. Un altro processo- scandalo, quelli di cui il paese dopo si pente, quelli che diventano colpa collettiva, e questa volta senza neppure l’oltranza della disobbedienza civile. Lucano dice infatti: «Mi piace la disobbedienza quando è civile, ma qui io sono innocente. E attenzione, non ho detto colpevole a fin di bene, ma innocente » . Come si vede, sarà una bella sfida per l’avvocato di Lucano, Antonio Mazzone, che lo difende gratis. È un cattolico liberale di sinistra che a Locri ha fama d’essere bravo ma così bravo che lo chiamano "il professore" benché non lo sia. Non parla — per principio — con i giornalisti, ma scrive, su "Il Dubbio", che i giornalisti dovrebbero avere accesso alle carte dei processi così la smetteranno di scocciare gli avvocati.
La Calabria dai due volti
Dunque l’ 11 giugno, a sfidare l’impervia solitudine calabrese, arriverà il mondo nell’aula più grande del Palazzo di giustizia di Locri, un brutto edifico «che non ha mai avuto l’agibilità così come le stalle che a Riace sono state sequestrate proprio perché non hanno l’agibilità». Il procuratore D’Alessio dice che se in tribunale venisse un handicappato non potrebbe salire « perché non c’è nemmeno l’ascensore», ma va fiero di una ristrutturazione affidata ai detenuti del carcere di Locri: «Sono venuti qui a imbiancare le aule dentro le quali erano stati condannati». Ed ecco come in Calabria anche gli edifici diventano trattatelli di pedagogia. E infatti l’intera Calabria è senza l’agibilità.
È la Calabria dello sgretolamento delle facciate delle ville costruite dopo il terremoto del 1908, e poi, da Reggio a Locri e a Riace, alberi, fiori e montagne, spazzatura e commissari antimafia, ma anche l’Etna a sinistra, Messina di fronte, più avanti Stromboli, e dall’altro lato ovunque il mare sino all’Africa, e intanto le costruzioni irraggiano un senso di smarrimento per via della speciale architettura del "non finito calabrese": scheletri di cemento e mattoni, mozziconi, finestre murate e finestre divelte, piloni.
Ci dice Lucano: « Tutto quello che si vede, tutto questo paesaggio in Calabria è anche uno stato d’animo. Ma Riace è una Calabria tutta bella, pulitissima, meglio della Svizzera. Mi hanno messo sotto processo perché una cooperativa di immigrati portava via la spazzatura sugli asinelli, ma dicono che non era iscritta all’albo. La Cassazione ha spiegato al procuratore che non ce n’era bisogno, ma loro insistono. Di sicuro Riace era pulita: facciamo la differenziata da quindici anni. Appena entravi sentivi subito l’odore del lavoro, delle cucine; gli odori della strada erano odori di casa, tutti gli immigrati lavoravano… Ora sono stati cacciati via e anche io non ci posso tornare. Era la mia patria».
No alla fuga in Europa
E ci spiega perché non ha accettato la candidatura di capolista alle europee che gli hanno offerto tutti i partiti di sinistra. Ci racconta l’incontro a Roma con Zingaretti: « Com’è Zingaretti? Allegro, e questa è una buona cosa. L’Europa mi piace, gli ho detto. E credo nell’Isti-tuzione. Ma sarebbe come cadere in un altro mondo: Bruxelles, Strasburgo, io avrei vissuto lì, non mi piacciano i commessi pensatori, i sonatori pagati, e anche da lì si può combattere, ci sono il Nord e il Sud dell’Europa così diversi».
Lucano, quando decide di parlare, parla svelto: gli si affollano così tanti pensieri in gola che non ha finito di dire il primo e già ha attaccato a dire l’altro, anzi gli altri: «Lo stipendio, lo scudo anche giudiziario; voletesapere qual è la vera ragione per la quale ho detto no? La ragione è lui, è il procuratore. Qui, nelle carte giudiziarie, ha scritto che cercavo il potere politico, la carriera, il tornaconto personale, la poltrona. Pensate che mia figlia, per curarsi, ha dovuto vendersi la chitarra. Non ho un euro, vivo di elemosina e in una casa che non è mia, ma se avessi detto sì all’Europa avrei dato ragione a lui».
Ecco: convincere il procuratore D’Alessio della propria purezza morale sarebbe per Lucano più importante di qualsiasi altra cosa al mondo: «Davvero non sopporto che quell’uomo creda con tanta tenacia alla mia colpevolezza, che pensi che io mi sia appropriato dei soldi dell’accoglienza, che io abbia fatto tutto quello che ho fatto a Riace per me stesso. Perché non posso parlare con lui come parlo con voi? Mi capirebbe subito. Vorrei scrivergli, lasciargli una lettera e poi sparire per sempre, vorrei pesare su di lui come lui pesa su di me».
Sembra, gli dico per tirarlo su, uno degli incipit più famosi di Simenon: «Signor giudice, vorrei tanto che un uomo, uno solo, mi capisse. E desidererei che quell’uomo fosse lei». Lucano ammette, ma corregge: «C’è un sola grande differenza con Simenon: io sono innocente».
La versione dei pm
Gli raccontiamo allora che siamo stati dal suo giudice e l’abbiamo trovato, anche lui, tormentato. Gli diciamo che secondo noi il procuratore vorrebbe assolvere la Riace di Lucano, ma condannare il Lucano di Riace. Pensiamo pure — possiamo sbagliarci — che sta per dare parere favorevole alla richiesta di revoca del divieto di dimora in modo da permettere a Lucano di fare la sua campagna elettorale. Avendo già fatto tre mandati da sindaco, Lucano si candida al consiglio comunale nella lista di Maria Spanò, che gli è legatissima.
Il procuratore di Locri non vuole interviste, ma qualche sua frase vale il rischio: «Cosa avreste fatto voi se da procuratore vi avessero messo sotto gli occhi un reato di Lucano?». Beh, niente se il reato fosse stato quello di una mancata iscrizione all’albo di un cooperativa, o il matrimonio combinato per fare entrare in Italia il fratello della compagna… Se invece si fosse trattato di 5 milioni di euro dello Stato, allora avremmo agito come ha agito lei. Ma il gip ha smontato l’accusa dei 5 milioni. «E noi abbiamo fatto ricorso».
E il divieto di dimora bocciato dalla Cassazione e confermato, per la seconda volta, dal tribunale del riesame (con lo stesso presidente!) grazie a una memoria che la Procura gli ha spontaneamente fornito? Il procuratore sa che è partita la sottoscrizione per assegnare il Nobel a Lucano proprio quando è stato rinviato a giudizio. Allarga le braccia e dice che l’Italia è il paese più bello dell’universo.
Luigi D’Alessio è un salernitano sessantenne, di sinistra, viso rotondo e linguaggio rotondo di saggezza e bonomia, ha una filosofia serena, crede nel sud e nel clima come "facitore di storia e di caratteri": temperamenti per temperature. Per questo ha affidato il processo Lucano al padovano Michele Permunian, che pure è il più giovane dei suoi sostituti. Permunian ha una grande esperienza nel volontariato cattolico: veglia tra i poveri e impegno spirituale. Ma è in magistratura da poco più di un anno. E a Locri sembra ancora un fuori parte, elegante con i gemelli ai polsini, giacca blue e pantaloni a quadrettini chiari. Qui la cura di sé, che altrove è decoro urbano, sembra lusso, eccesso, come prendere l’aperitivo al bar di sotto, Le Tre Coccinelle, con l’aria di prenderlo al caffè Pedrocchi, quello di Stendhal.
Il vecchio procuratore in jeans e il giovane sostituto in tiro sembrano gli ufficiali che nei film Western vorrebbero sempre litigare, ma non lo fanno mai: da un lato l’esperienza e la saggezza di John Wayne, che conosce gli indiani e parla la loro lingua, e dall’altro l’ingenuo zelo del tenente appena uscito dall’accademia di West Point. È stato il sostituto padovano a scrivere e a mandare al tribunale del riesame di Reggio la memoria che smonta « in maniera fattuale, punto per punto» i rilievi della Cassazione. Ed è frizzante la disputa tra "il tenente" e la Cassazione. L’11 giugno va a processo anche la Cassazione?
Il Comitato 11 giugno
Del "Comitato 11 giugno", provvisoriamente riunito nella casa per anziani di Caulonia, fanno parte tutti gli esponenti della sinistra calabrese, da Potere al Popolo sino ai Liberi e uguali, ma ci sono anche gli autonomi, i rifondaroli, i comunisti di varie specie, il direttore del settimanale Riviera, Ilario Ammendolia che ha scritto "La ’ndragheta come alibi" e rivendica «la normalità » della Calabria. C’è pure il cantautore contadino Nino Quaranta, con una bella barba bianca che finisce con una lunga treccia. Intona, con voce morbidissima, " Il Sogno del brigante". Dunque si discute, mangiando fave crude, se organizzare « una presenza» , «un presidio» o «una manifestazione». E scriveranno un «documento politico» con il popolo, il potere, le terre, la storia…, un gioco a incastri, un tessuto di parole cucite in un atelier meridionalista e romantico. La bella signora Mirella, che lavora con il marito, un simpatico medico, Angelo Broccolo, uno dei tanti arbëreshë (discendenti degli albanesi arrivati qui tra il XV e il XVIII secolo) di Calabria (chissà se il sovranista Salvini ne sa niente) che coordina la sinistra, ci sorride: «Dicono le solite, vecchie… "cavolate", ma va bene perché portano solidarietà a Mimmo, un uomo straordinario: come lui ne nasce uno ogni cento anni. Io andavo a Riace anche per il compleanno e ogni volta che avevo qualcosa da festeggiare». Qualcuno, con forte passione, ora afferma che il procuratore è manovrato "da chi sta in alto", ma Lucano interviene: «Io non l’ho mai detto né pensato. In fondo sarebbe più facile se fosse vero».
Le ispezioni del prefetto
Al contrario gli sembra un portaordini il prefetto di Reggio Calabria, Michele di Bari, «quello che Salvini — insiste Lucano — ha appena promosso capo del dipartimento Immigrazione, ed è all’origine di tutto questo fango su di noi, il fango che prima viene passato ai soliti giornali di destra e poi finisce in procura. È lui che ha ordinato la prima ispezione su Riace con una relazione che si chiude auspicando l’intervento della magistratura penale e di quella contabile. Pensate, ne ha ordinata pure un’altra ma ha nascosto la relazione: non gli piaceva perché — ha detto a me — "raccontava Riace come una fiaba". Ed è il prefetto della tendopoli e dei morti di San Ferdinando. A convincere lui non ci proverei nemmeno, non mi interessa. Mi basta dire che questo prefetto, che ha avviato la macchina del fango contro Riace, non è mai venuto a Riace!». Il prefetto Di Bari non è a Reggio. Al telefono ci dice che «quella storia della doppia ispezione è stata già chiarita in procura» E poi: «Con Lucano abbiamo fatto solo il nostro dovere. Fare ispezioni è la normalità e quando emergono sospetti è un dovere rivolgersi ai magistrati». Gli chiediamo: perché dicono con animosità che adesso lei, sulla pelle di Lucano e di Riace, prende il premio da Salvini? «L’animosità li aiuta, ma non li assolve».
Il modello sparito
A Riace non c’è quasi più nulla del modello Lucano. Ci portano in casa di una signora di colore che allatta la quinta bimba, gli altri quattro corrono in giro, inciampano, ridono. La signora è gentile, ma noi pensiamo, magari a torto, che sia stufa di essere esibita come una delle sopravvissute di Riace. Gli altri sono andati via e la città — come è già stato molto raccontato — si è svuotata. Adesso è stata creata una Fondazione che ha già raccolto centomila euro, si chiama “È stato il vento”. E si aspetta il ritorno di Lucano per ri-finanziare privatamente l’accoglienza e dunque anche la vita del paese. Tra i promotori della Fondazione c’è Emilio Sirianni che fa il giudice del Lavoro a Catanzaro e le cui conversazioni con Lucano, intercettate e archiviate dalla Procura, sono state pubblicate su Il Giornale come fossero "soffiate" di un giudice complice. Gli diceva: «Stai attento alle mail, visto che sei indagato» . A Riace lo conoscono tutti, anche il prete, don Gianni Coniglio, che contro il diavolone Lucano e contro i diavoletti lucaniani fa le sue prediche domenicali: «Non si può amare senza pregare, non si può accogliere senza insegnare la parola di Dio». Alle elezioni comunali si presentano anche i berlusconiani e i salviniani, sono ex lucaniani cacciati e in lista hanno qualche inquisito.
Nei pochi bar di Riace non si parla di donne e motori ma solo di Lucano, sempre di Lucano, quello che non c’è. Pietro Zucco, che fu inquisito per mafia, leghista, allegro e accogliente anche con i giornalisti che «travisano sempre tutto» sintetizza così: «Qui a Riace un giorno siamo stati tutti con Lucano, tutti tutti lucaniani. Ma ora no, si è messo attorno troppa gente sbagliata». Forse il paese torna a somigliare a tutti gli altri paesi moribondi della Calabria o forse, come in quel bellissimo, famoso e breve racconto tedesco scritto da Heinrich von Kleist nel 1810 ("Michael Kohlhaas", Marsilio), è ora che davvero si comincia, quando, patito un torto giudiziario da innocente, il mite protagonista, il Mimmo Lucano di Kleist diventa quello che non era, un rivoluzionario che raccoglie per strada sbandati ed emarginati, non per assisterli ma per organizzarli, per farne un partito, per trasformarli in un esercito, per scrivere l’epopea dei nuovi cafoni. Manzonianamente: così va spesso il mondo o meglio così andava nel secolo decimo nono.