il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2019
Salah icona di libertà in Egitto
Provate a passeggiare per i vicoli di Rosetta, lungo l’estremo corso del Nilo, provate a fotografare le barche che si allineano agli yacht, le architetture ottomane: presto vi troverete pedinati da un paio di anziani signori in borghese che avvicineranno il vostro autista, e gli intimeranno di farsi scortare fino all’uscita della città. Provate a seguire i riti pasquali della cattedrale copta di San Marco, ad Alessandria: sarete perquisiti tre volte in 50 metri da tre distinti corpi armati che vivono ancora nel terrore degli attentati della domenica delle Palme di due anni fa (18 morti).
Nulla deve sfuggire all’occhio del potere in un Paese sempre più provato dall’insicurezza e dall’austerità, dall’aumento dei prezzi e da una crisi economica che non lascia scampo. Mentre i giornali decantano i successi del regime nella promozione dei diritti umani, nell’industrializzazione e nella lotta alla droga, e mentre le tv presentano il Cairo come la soluzione a tutte le crisi regionali (dalla Libia al Sudan allo Yemen), le strade le scuole le moschee sono ancora tappezzate dai manifesti con il faccione del presidente Al-Sisi che invita i concittadini a votare nel referendum costituzionale del 20-22 aprile (quando si dice “personalizzare un referendum costituzionale”…). Passata con l’88,8% di sì e un’affluenza del 44,4%, la riforma chiarifica che il difensore e garante della democrazia è l’esercito (gli islamici ortodossi che vi vedono il pericolo della laicità), rafforza il già asfissiante controllo presidenziale sulla magistratura, promette quote fisse in Parlamento per le donne (25%) e “adeguata rappresentanza” a categorie varie (giovani, cristiani, operai, contadini, residenti all’estero), reintroduce il Senato abolito nel 2014 (ma un terzo dei suoi membri sarà nominato direttamente dal Presidente), e soprattutto prolunga l’attuale mandato di Al-Sisi fino al 2024, consentendogli di ripresentarsi per governare fino al 2030: dal colpo di Stato del 2013 saranno allora passati ben 17 anni, più di quelli di Nasser e di Sadat. Tuttavia non sarà il tempo, da solo, a donare al generale una visione di riforme economiche o la destrezza di politica internazionale che caratterizzò quei due grandi predecessori. L’unico elemento di sicura continuità, per ora, è l’autoritarismo.
La repressione di Al-Sisi (60mila i prigionieri politici) ha colpito non solo i giornalisti o gli intellettuali d’opposizione, non solo i Fratelli Musulmani dell’ex-presidente Morsi (l’unico eletto in libere elezioni, da anni detenuto), ma anche i tanti giovani che tra il 2011 e il 2012 avevano immaginato per il Paese un futuro diverso, dai ragazzi delle rivolte di Piazza Tahrir fino alla leggenda del calcio africano Mohamed Aboutrika, iscritto da un paio d’anni sulla lista nera dei “terroristi” e ora in esilio in Qatar.
La parabola delle speranze deluse di una generazione è bene incarnata nella protagonista del documentario Amal, di Mohamed Siam, che segue i sogni e la disillusione di una ragazza cairota dalla “primavera egiziana” 2011 al 2017.
In Amal, come in tutta la storia recente dell’Egitto, gioca un ruolo fondamentale la mattanza dello stadio di Port Said (1 febbraio 2012), in cui 74 tifosi dell’Al-Ahly (la squadra del Cairo tra i cui ultras vi erano molti agitatori anti-Mubarak) furono uccisi dalle violenze degli ultras dell’Al-Masry, in un massacro condotto con la compiacenza delle forze di polizia. Quel giorno Aboutrika era in campo e soccorreva i feriti; quel giorno il suo emulo più dotato, Mohammed Salah, decideva di lasciare il Paese per una carriera che l’avrebbe portato in Svizzera e poi in Italia (alla Fiorentina si prese la maglia 74, il numero dei morti di Port Said). Oggi, il venerdì o il sabato sera, tutto l’Egitto, dai ristoranti troppo vuoti delle Piramidi al Football Club “Roma” di Aboukir (che ancora inalbera sul portone le foto della coppia giallorossa Salah-El Shaarawy), si ferma per guardare la partita del Liverpool in Premier League. Le gesta dell’eroe, che mantiene il contegno umile e gentile di chi non dimentica le proprie origini in un villaggio del Delta, e che si è tenuto alla larga dalle strumentalizzazioni politiche d’ogni segno, rappresentano forse la sola arma di speranza di un popolo che gli ha tributato sua sponte oltre 1 milione di voti alle presidenziali dell’anno scorso, alle quali beninteso non era candidato.
La popolarità di Salah potrebbe rappresentare alla lunga un’insidia per lo stesso Al-Sisi, a meno che non venga anche lui estromesso dal Paese con qualche pretesto.
Chissà cosa penserebbe di questa Liverpool-connection il grande poeta greco di Alessandria Costantino Kavafis (1863-1933), che proprio tra Londra e Liverpool iniziò ad amare la letteratura europea: nel cimitero greco ortodosso dove riposa, e nel limitrofo cimitero cattolico, giace irrimediabilmente scomparsa la grande città mista e libertina, affluente e poliglotta, di Ungaretti e Thuile, di Tsirkas e Forster. Quell’Alessandria dove Kavafis abitava in una casa di rue Lepsius, nel cui cortile oggi hanno improvvisato una baraccopoli; quell’Alessandria che secondo Lawrence Durrell era “dopo Hollywood il posto più ricco di belle ragazze” (e oggi prolifera il niqab), ma anche l’unico luogo dell’Egitto dove poter vivere, “perché ha un porto e un litorale piatto di trementina – una via di fuga”.