La Stampa, 5 maggio 2019
Analisi del successo economico di Trump
Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è crollato al 3,6 per cento in aprile, il dato più basso da 50 anni a questa parte. L’economia americana cresce ormai quasi ininterrottamente da 30 trimestri di seguito e stiamo assistendo a una delle fasi di sviluppo più duratura nella storia degli Stati Uniti, emulando gli anni ’60 e gli anni ’90. Prima gli stimoli fiscali per contrastare la grande recessione del Presidente Obama, poi la politica monetaria ultra accomodante della banca centrale, e infine Trump, con un mix di politiche fiscali aggressive e di protezionismo commerciale hanno generato 10 anni di crescita. È tutto oro quel che luccica? Si può affermare che la politica economica americana – protezionismo e tagli fiscali – sia di successo? Andiamo con ordine.
Il tasso di disoccupazione è sceso ai minimi storici anche perché è diminuito il numero di quelli disposti a lavorare. Il dato sorprendente sulla crescita economica nel primo trimestre dell’anno (+3,2 per cento rispetto alla fine del 2018) si spiega in buona parte con un calo delle importazioni e un forte aumento delle esportazioni, il ché farebbe pensare che il protezionismo stia funzionando.
Ma un trimestre è un po’ poco per giudicare, soprattutto se si tiene conto che i dati sull’import e export sono stati molto volatili in questi ultimi mesi a causa dei tanti annunci di dazi che hanno creato incertezza negli operatori. Peraltro, nell’ultimo anno il deficit commerciale americano è aumentato invece di diminuire (le importazioni sono cresciute più delle esportazioni). La scommessa rimane quella di riportare le produzioni a più alta intensità di lavoro – il manifatturiero essenzialmente – all’interno del territorio americano, ma con un mercato del lavoro così sotto pressione per la piena occupazione, non sarà facile trovare le competenze necessarie. Gli sforzi trumpiani si potrebbero scontrare con un mercato del lavoro saturo.
Poi c’è il tema degli stimoli fiscali, sia sotto forma di taglio alle tasse, sia come spesa pubblica aggiuntiva. Malgrado la chiusura temporanea degli uffici federali all’inizio dell’anno (cosiddetto shutdown) la spesa pubblica ha contribuito significativamente alla crescita del Pil in questo primo trimestre. Ma spesa pubblica e tagli di imposte non potranno continuare indefinitamente: l’enorme debito pubblico ha già superato il 100 per cento del Pil e si avvia verso il 110 per cento nel volgere di qualche anno. Si tratterà di un raddoppio del debito in 20 anni (era il 55 per cento del Pil nel 2002) e non si può non fare un parallelo con l’Italia degli anni ’80, quando il debito passò dal 60 al 120 per cento del Pil, generando sì crescita economica, ma lasciando in eredità un fardello di cui ancora non siamo stati in grado di liberarci e che deprime le nostre prospettive di crescita economica per gli anni a venire.
Gli Stati Uniti hanno un vantaggio strutturale e uno congiunturale nella loro gestione del debito pubblico. Quello strutturale è che emettono debito in dollari, che è valuta di riserva di cui c’è domanda nel mondo. Quello congiunturale è che i tassi sono ancora bassi e quindi gli investimenti attivati dal debito pubblico hanno – o dovrebbero avere – un rendimento maggiore del costo. Ma questi due vantaggi non significano che non bisogna preoccuparsi del debito. Nel futuro si dovrà fare i conti con una popolazione che invecchia, dunque che genererà meno entrate fiscali, richiederà più spese, e risparmierà di meno. Quindi si porrà la questione di finanziarsi sempre più all’estero con le conseguenze e i rischi geopolitici che questo implica, cioè dover fare affidamento su Stati o cittadini stranieri per pagare le proprie politiche.
I tassi sono certamente bassi, circa la metà rispetto a prima della crisi, ma per quanto ancora? L’ufficio per il bilancio del Congresso americano stima che prima della metà di questo secolo la spesa per interessi raggiungerà il 6 per cento del Pil, più della spesa oggi sostenuta per il sistema sanitario nazionale. Un aumento dei tassi e della spesa per interessi renderà sempre più problematico il finanziamento delle politiche pubbliche e renderà difficile mantenere la tassazione ai livelli fissati dalla riforma Trump.
Questo non significa che, per il tempo che separa dalle prossime elezioni presidenziali di novembre 2020, ci si debbano aspettare cambiamenti di rotta sostanziali nella dinamica di crescita dell’economia americana: il reddito disponibile delle famiglie aumenta grazie ai tagli fiscali e i loro bilanci sono più solidi rispetto al periodo precedente la crisi finanziaria, quindi i consumi continueranno a sostenere l’economia; i dazi annunciati o attuati sembrano contenere in questa prima parte dell’anno le importazioni dalla Cina. Tutti quelli che vogliono, trovano lavoro. Ma da questo a dire che le politiche protezionistiche e dei tagli di tasse in deficit siano efficaci, ne passa.