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 2019  maggio 03 Venerdì calendario

Il piano di Guaidó: elezioni entro 9 mesi

Favorire un’intesa fra Usa e Russia, affinché si accordino per sostenere un governo di transizione, che porti il Venezuela alle urne entro otto o nove mesi. È la soluzione ideale a cui stanno lavorando i protagonisti della crisi più impegnati ad evitare la violenza, come la Santa Sede.
La sollevazione del 30 aprile è ancora avvolta nella nebbia, ma alcuni punti si stanno chiarendo. Guaidó e i suoi uomini hanno negoziato con alti rappresentanti del regime, forse anche a casa del fondatore del partito Voluntad Popular Leopoldo López, allora agli arresti domiciliari. Il piano concordato prevedeva che il capo della Corte Suprema Moreno avrebbe riconosciuto la legalità della presidenza ad interim, e ciò avrebbe dato al ministro della Difesa Padrino la copertura per scaricare Maduro. In cambio, Moreno, Padrino e il comandante della Guardia de Honor Presidencial Hernandez avrebbero conservato i loro posti nel futuro governo. Senza il sostegno dei militari, Maduro sarebbe stato costretto a cedere. 
L’operazione non ha funzionato, per tre possibili ragioni. Primo, la trattativa era stata dal principio una finta, concepita come trappola per far esporre Guaidó, screditarlo, e scoprire i traditori del regime. Secondo, i russi sono intervenuti e hanno fatto pressioni su Maduro e Padrino affinché non mollassero. Terzo, quando López è andato davanti alla base La Carlota per sollecitare i militari alla sollevazione, ha scavalcato Guaidó ed è andato oltre il piano concordato. A quel punto Padrino ha perso la fiducia negli interlocutori dell’opposizione e ha fatto marcia indietro.
Una frattura però c’è stata, perché il capo della polizia politica Sebin, Cristopher Figuera, ha collaborato alla liberazione di López, che doveva essere seguita dalla scarcerazione di altri detenuti politici. Figuera è stato esautorato e sostituito con Gonzalez Lopez, che aveva già guidato il Sebin in passato, ma era stato allontanato da Maduro. Il suo ritorno sarebbe stato imposto dal numero due del regime, Diosdado Cabello. Ciò dimostra che Nicolas non ha più il controllo assoluto degli apparati di sicurezza e non può dormire proprio tranquillo. 
Grazie a questa frattura nel regime e tra i militari, sfruttata ieri con la consegna di volantini davanti alle caserme per incoraggiare le defezioni, Guaidó resta convinto che qualcosa accadrà nel futuro prossimo. Ora spinge per lo sciopero generale scaglionato, per dimostrare come il governo abbia perso il controllo anche degli apparati civili, che ormai non producono quasi più nulla per l’economia. Il presidente ad interim è realista, e si dice pronto a garantire un ruolo alla Russia nel futuro del Venezuela: Mosca - promette - si troverà anche meglio con noi, perché le cose funzioneranno. In cambio spera che il Cremlino non ostacoli la transizione, consentendo l’annuncio della data delle elezioni da tenere entro 8 o 9 mesi. Finora Guaidó ha insistito che Maduro dovrebbe lasciare il potere, facendo posto ad un governo guidato da lui. In privato lascia intendere che accetterebbe un esecutivo “tecnico”, più neutrale, o anche uno in cui siano presenti tanto lui, quanto Maduro. Purché si arrivi ad elezioni vere, che l’opposizione è certa di vincere, eliminando così ogni rischio di contestazioni del cambio. 
La Santa Sede si sta adoperando in questo senso, per favorire contatti tra Guaidó e i russi, mentre gli occhi sono puntati sull’incontro di domani o martedì ad Helsinki tra i capi delle diplomazie Lavrov e Pompeo. La settimana scorsa i vescovi venezuelani hanno inviato una nuova lettera privata al Papa, in cui sostengono la transizione. Francesco è con loro, ma ha un ruolo diverso da svolgere. La Santa Sede parte dal riconoscimento delle sofferenze della popolazione, e quindi dalla necessità umanitaria di trovare una soluzione. Perciò aiuta il dialogo con i russi per una via d’uscita pacifica. Anche l’Italia può giocare un ruolo, perché con il mancato riconoscimento di Guaidó ha irritato gli Usa e gli italo-venezuelani, ma si è creata uno spazio di manovra tra il governo e l’opposizione, che il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi Benassi ha cercato di sfruttare quando ha visitato Caracas per invitare Maduro al compromesso.
I rischi però restano molto alti. Se facesse l’accordo con Washington, Mosca potrebbe obbligare i cubani ad accettarlo, ma Guaidó è molto preoccupato anche per il ruolo che i guerriglieri colombiani hanno nelle regioni di confine. La frattura tra i militari, e con i colectivos, potrebbe creare scenari da guerra civile. 
Trump infine non può perdere, dopo essersi esposto così tanto, e se non fosse convinto del compromesso con Putin, i suoi consiglieri come Bolton potrebbero spingerlo ad un intervento militare, gestito da Bogotà con l’aiuto del Pentagono. Infine esiste l’ipotesi che Maduro e l’ala dura di Cabello rifiutino ogni accordo, puntando a sopravvivere secondo il modello Zimbabwe.