La Stampa, 3 maggio 2019
In Libia è sfida fra potenze sunnite
Ad un mese dall’inizio, l’offensiva militare di Khalifa Haftar contro Tripoli non è riuscita nell’intento di rovesciare il rivale Fayez al-Sarraj ma ha contribuito ad evidenziare la svolta in atto nella crisi libica: i protagonisti sul campo sono diventati gli Stati sunniti in lotta fra loro, come già avviene in Siria e nel Golfo.
Incominciata nel 2011 dopo l’uccisione del colonnello Muammar Gheddafi, la crisi armata in Libia aveva finora avuto come maggiori attori circa 250 clan tribali e milizie con il risultato di portare al-Sarraj a controllare la Tripolitania e Haftar la Cirenaica, spaccando la Libia a metà. Con in mezzo Misurata, guidata da Ahmed Maiting, alleato di al-Sarraj. Tale lacerazione ha generato una conflittualità permanente con il crescente coinvolgimento di Stati stranieri: Francia e Russia a fianco di Haftar, Italia più vicina ad al-Sarraj con gli Usa soprattutto impegnati a colpire ed eliminare le enclave jihadiste libiche, come avvenuto a Sirte e dintorni.
Tale situazione viene ora superata dall’iniziativa degli Stati sunniti rivali di elevare il livello di coinvolgimento nella crisi, uscendo di fatto allo scoperto come i maggiori sponsor di Haftar e al-Sarraj. Quanto avvenuto negli ultimi 50 giorni testimonia tale escalation. A fine marzo il re saudita Salman ha ricevuto Haftar nel palazzo di Riad identificandolo come il «garante della sicurezza» in Libia, a metà aprile la scena si è ripetuta al Cairo con il presidente Al-Sisi che ha posto l’accento sulla determinazione di Haftar «nel combattere gli estremisti islamici» e da quando le milizie bengasine hanno raggiunto la periferia di Tripoli ogni notte godono del sostegno degli attacchi dei droni degli Emirati Arabi Uniti.
Il cui ministro degli Esteri, Anwar Gargash, afferma che «il problema da risolvere è il controllo degli estremisti su Tripoli» ovvero il sostegno di al-Sarraj da parte di milizie islamiche. Ora, il punto è che quando Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti parlano di «estremisti islamici» si riferiscono al movimento dei Fratelli musulmani, sostenuto in più aree di crisi da Turchia e Qatar che sono poi, guarda caso, anche i maggiori alleati di al-Sarraj. È uno scontro che ha in palio la leadership del mondo sunnita perché i Paesi alla guida degli opposti fronti, Arabia Saudita e Turchia, rappresentano versioni opposte della corrente maggioritaria dell’Islam che ruotano attorno proprio al ruolo della Fratellanza musulmana. Per Ankara si tratta della versione più moderna dell’integrazione fra politica e Islam mentre per Riad è l’ideologia che genera i jihadisti, terroristi islamici il cui unico intento è conquistare il potere negli Stati arabi per dominarli o svenderli al rivale di sempre, l’Iran sciita. Stiamo parlando di uno scontro strategico, feroce, imponente per la guida dell’Islam che si svolge in questo momento su più campi di battaglia - Siria, Iraq, Gaza, nel Golfo - a cui si aggiunge in maniera lampante la Libia. Il motivo concreto è il sostegno che alcuni gruppi dei Fratelli musulmani assicurano al debole al-Sarraj a Tripoli, spiegando anche la recente mossa della Casa Bianca a favore di Haftar nell’evidente intento di favorire gli alleati sauditi-egiziani-emiratini per ostacolare Erdogan ed il Qatar, considerati troppo vicini a Mosca e Teheran. Tale dinamica obbliga l’Italia a rivedere in fretta l’approccio finora avuto alla crisi libica perché l’impostazione basata su sostegno ai mediatori Onu e sui rapporti con clan e milizie locali non basta più. Poiché il nostro interesse nazionale è evitare l’arrivo di ondate di migranti e cellule di jihadisti nella Penisola, così come difendere gli interessi energetici, Roma si trova obbligata a decidere quale approccio avere allo scontro fra Paesi sunniti. È una decisione di politica estera di prima grandezza perché investe la nostra proiezione nel mondo arabo, inclusi i rapporti bilaterali con Qatar, Emirati ed Egitto. Più tardi affronteremo tale nodo, più danni ne trarremo. Il fattore tempo non gioca per l’Italia.