il Fatto Quotidiano, 5 maggio 2019
Intervista a Claudia Gerini
Alle ore 20 di una sera più autunnale che primaverile, seduta su una sedia improbabile e in mezzo a un prato bagnato, Claudia Gerini, riscaldata solo da un maglione nero, sfrutta i venti minuti di pausa dal set di Burraco Fatale (prossimo film di Giuliana Gamba) per mangiare un’insalata scondita (“si sono dimenticati l’olio? Vabbè, non importa, andiamo avanti”), trattare con apparente remissione, reale decisione, l’orario di rientro della figlia quindicenne (“no, non oltre mezzanotte e un quarto. Ti vengo a prendere io”), rispondere alle nostre domande e respingere le incursioni della produzione (“Claudia c’è il trucco, andiamo?”).
Non si scompone mai.
Se poi qualcosa le stona, il suo sguardo non lascia molti appigli ai “se” e ai “ma”.
Macchina da guerra.
Ma no, sono solo organizzata, ed è fondamentale per non soccombere (Le arriva un messaggio sul cellulare). Sono le mie amiche.
Ne ha molte?
Le donne con me non si sentono in competizione diretta, e probabilmente perché non ho puntato solo sull’aspetto fisico, sulla sensualità, sull’erotismo.
Sabrina Impacciatore la considera una sorella.
E lei per me. Ho un gruppo di amiche storiche, la nostra chat si chiama “Le galline”, e siamo io, Mariasole Tognazzi, Alessia Barela, Francesca Figus, Sabrina Impacciatore e Valentina Cervi…
Però la Impacciatore…
Quando ho vinto il David di Donatello (con Ammore e malavita) mi ha mandato un video mentre piangeva per la felicità: lei è proprio connessa con la spiritualità delle persone; con lei e le altre c’è reale “sorellanza”.
Lei è l’ape regina.
Che fa l’ape regina?
In qualche modo tiene unito un gruppo.
Un po’ sì, però mi piace in assoluto sentire questa solidarietà femminile. Anche nel film di Muccino (A casa tutti bene), eravamo molte donne, e pure lì è nato qualcosa tra di noi.
Muccino ha dichiarato di essere molto fisico sul set.
Lui è un grande direttore d’orchestra; ogni tanto parte e abbraccia, deve sentire l’attore, ti deve connettere fisicamente.
Si imbarazzava?
No, anzi lo trovavo giusto.
(Arriva la telefonata della figlia: “Chi è Mario? Va bene… Ti vengo a prendere io… Che fai domani? Va bene. Non oltre mezzanotte e un quarto. A dopo”).
Mezzanotte e un quarto è stretta…
Ha quindici anni, è piccola.
Lei, di sicuro, rientrava dopo.
Io scappavo.
Appunto.
Vabbè, lasciamo perdere su quello che combinavo (scoppia a ridere, subito dopo cambia tono della voce, più serio); però ero molto responsabile, andavo bene a scuola; alla fine ero una ragazzetta tanto perbene.
Alla fine.
Molto curiosa del mondo.
Molto.
Ne ho combinate…
I compagni di classe come la trattavano?
Ero quella che voleva diventare attrice, poi ho cambiato classe alla fine del quinto ginnasio, e da Ostia sono arrivata a Roma.
I ragazzi della sua età osavano invitarla a uscire?
Qualcuno sì, ma perché allora l’attività extrascolastica da attrice non era così predominante. Della mia carriera a scuola si sapeva, ma senza esagerare.
Ha iniziato presto con i film.
A 15 anni con Sergio Corbucci, maestro della commedia all’italiana, ma durante il liceo non ho lavorato tantissimo, giusto qualcosina e alcuni spot, la vera carriera è partita dopo la maturità.
Con Corbucci era nel cast di “Roba da ricchi”, insieme a Laura Antonelli e Lino Banfi.
La Antonelli era molto riservata, ancora non conoscevo certe liturgie da set, avevo giusto quindici anni, così un giorno sono entrata nella sua roulotte, e senza avvertire: le stavano sistemando la parrucca, indossava la calza in testa. Scocciata mi ha fatto allontanare.
Ci è rimasta male?
No, in assoluto ero troppo divertita dall’ambiente: giravamo a Nizza perché secondo Corbucci i film andavano realizzati solo in posti belli, “dove si riesce a godere”, ripeteva spesso.
Epicureo.
Diceva: “Per me vanno bene posti come Nizza o Cannes, con alberghi fighi, e poi se magna bene”.
Intimorita dai primi ciak?
In qualche modo sapevo di poter dare qualcosa, amavo già il momento del trucco, del parrucco, la scelta dei vestiti, la preparazione dietro la scena; la macchina da presa mi ha sempre affascinato.
Subito.
Ripenso ai miei quindici anni, e mi rendo conto che ero già molto avanti, molto istintiva, seria, professionista.
L’agitava più un’interrogazione?
Senza dubbio, specialmente i compiti in classe di greco.
Prima ha detto che era convinta del suo futuro.
Lo sapevo, e ripetevo a me stessa: “Prima o poi qualcuno mi noterà”.
Qual è il suo “dono”?
Dare verità ai personaggi che affronto, e sono riuscita interpretare ruoli molti differenti tra di loro, quindi a cambiare vita, pelle, ed è uno degli aspetti di cui vado più fiera; Enza Sessa (la Gerini in Grande, grosso e… Verdone) non è il clichè della bora o della coatta, è proprio lei, sembra reale, una che puoi incontrare per strada.
L’esordio da coatta è con Jessica in “Viaggi di nozze”.
Il mio primo film con Carlo, esperienza meravigliosa e divertente, con un momento topico: per la scena della piscina, quando si è buttato in acqua al grido “la vojo fa’ strana sta pupa”, tutta la troupe ha sentito un tonfo inquietante. Il giorno dopo si è presentato sul set piegato in due “me so’ fatto male all’ernia del disco” (la chiamano per trucco e parrucco). Ci dobbiamo spostare.
Va bene.
Ieri sera l’ultimo ciak è stato alle quattro e mezzo del mattino.
Si diverte?
Tantissimo. Qualche giorno fa ne parlavo con una collega, e mi chiedeva: “Non ti sei stufata?”. Questa domanda mi ha colpito, perché non era retorica, i suoi occhi erano assolutamente sinceri.
Risposta?
Le ho consigliato di variare i ruoli, altrimenti la monotonia arriva, come in qualunque altro lavoro (Ci pensa un attimo). Mi rompo solo delle continue mani addosso: sul set ti sistemano in continuazione, dai capelli ai vestiti, devi essere precisetta, e nella quotidianità non lo sono.
Cosa le chiedono le giovani attrici?
Seguo come docente due master class di recitazione, ma in realtà non so offrire consigli tecnici, posso spiegare come ci si muove in questo mondo, quali sono i meccanismi, come si prepara un personaggio, non oltre; per usare una metafora calcistica, non tutti gli allenatori sono stati grandi giocatori.
Totti non è allenatore.
Non lo nomini così altrimenti mi sento male.
Era allo stadio il giorno del suo addio al calcio?
Certo! In mezzo a Sabrina Ferilli e Claudio Amendola, e tutti piangevamo, ma non ai livelli di Claudio.
Disperato.
Singhiozzava come non ho mai visto nessun altro.
Ammetta: ha insultato Spalletti per come ha trattato Totti…
Quello sempre, per mesi gli abbiamo declinato qualunque tipo di improperio, siamo arrivati a detestarlo: il capitano non si tocca.
Torniamo a lei: secondo Cecchetto “il successo è un mestiere”.
È necessario imparare a gestirlo, anche nella scelta dei copioni, con un equilibrio complicato tra la tua indole e la ragione, senza mai farti fagocitare dai desideri altrui.
Non è un’attrice depressa.
Per niente.
Molti suoi colleghi lo sono.
Ma non per il lavoro specifico, lo sarebbero stati anche da farmacisti; l’attore, se ha la giusta indole, e la vocazione, ha la possibilità di vivere grazie a un mestiere bellissimo…
Mentre…
Per alcuni di noi la sofferenza è d’obbligo, soprattutto per quell’intellighenzia di cui non ho mai fatto parte: quelli vivono tutto in maniera “alta”.
Lei no.
Quando esco dal set chiudo con il ruolo, a meno di una scena iper drammatica come la violenza.
Pragmatica.
Non mi chiudo nell’eremo, ho i figli, la spesa, la vita reale.
Ipocondriaca?
Per niente, e fa sempre parte della depressione, o almeno è quel ceppo.
Non conosce la paura.
Io mi butto. A 18 anni ho preso qualche lezione di basso elettrico, poi mollato; anni dopo (nel 2003) sono a Sanremo e gli autori mi chiedono di suonarlo in diretta con i Negrita. Accetto. Stessa cosa nel 2007 quando presento il Primo Maggio e allora stavo con Federico Zampaglione (leader dei Tiromancino).
Fa la spesa, quindi.
Devo comprare le cose che dico io; forse non ci vanno i colleghi uomini.
Primo autografo.
Ai tempi di Non è la Rai, allora vivevamo una sorta di psicosi collettiva, uscivamo dagli studi televisivi e trovavamo la folla in stato di assedio.
Quel programma è stato un talent importante.
Sì, e per tante di noi, a partire da Sabrina (Impacciatore), che è rimasta uguale nonostante quello che mangia.
Ha appetito.
Al ristorante ordina dall’antipasto al dolce e al momento di decidere, pone sempre la stessa questione al cameriere: “Senta, se io dovessi morire domani, cosa dovrei assolutamente assaggiare?”. E lo scandisce seria. Poi quando è convinta della scelta, si raccomanda: “Ah, una porzione abbondante”.
Gli uomini entrano in competizione con lei?
Succede, con il rischio di viziare il rapporto.
Ognuno vuole il riflettore per sé.
Quello accade se una sta con un attore: gli uomini hanno paura di venir oscurati dalla donna, ci temono. (Inizia a sorridere con gli occhi, poi coinvolge la bocca). Noi donne abbiamo il tacco, il trucco, il capello, le tette e tutta una serie di accessori belli.
Il maschio.
Ha il narcisismo frustrato nonostante una carriera molto più lunga e aperta: devono esistere solo loro; tra donne c’è più solidarietà.
Secondo una ricerca, ognuno ha un incubo legato al periodo delle superiori.
Invece al liceo sognavo sempre Johnny Depp…
Sogno erotico?
Più che altro io e lui in discoteca, io e lui in vespa, poi da grande sono arrivata a immaginarlo mentre mi domandava: “Scusa, sei tu ad aver interpretato Iris Blond?”. O mi diceva: “Ti amo”.
Lo ha conosciuto?
Sì, a Venezia, ero lì con il mio compagno del tempo. La sera andiamo al ristorante, ci sediamo, e poco dopo riconosco Johnny Deep dalle spalle, a tavola con altri, tra i quali un mio ex.
Si è fiondata…
Macché! Poco dopo vedo il mio ex che mi rivolge gesti plateali per raggiungerlo e presentarmelo. Io immobile. Fino a quando mi decido, cammino tremante, e davanti a lui non riesco a pronunciare nient’altro che “hi”. Eppure parlo benissimo in inglese. Ah, il vero incubo ricorrente è legato al periodo delle elementari.
Quale?
Sempre lo stesso: per strada mi inseguiva un lupo, entravo in un palazzo, scappavo per le scale, fino a quando uscivo su un terrazzo dell’ultimo piano.
E…
Ogni volta dovevo decidere se buttarmi o meno. Non avevo altro scampo. Ovviamente mi buttavo e mi salvavo.
(Canta Jovanotti in “Mi fido di te”: “La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare”).