Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2019
Piacentini, vate del fascismo di pietra
«Io non ho mai fatto politica, non ho mai giocato di opportunità», asseriva l’architetto Marcello Piacentini il 9 gennaio 1946 in una lettera alla moglie del critico Ugo Ojetti, morto il 1° gennaio. Nello stesso giorno l’architetto, giudicato «colpevole dell’addebito di apologia del fascismo» dalla commissione per l’epurazione, per sottrarsi alla pena di essere allontanato dall’università, ribadiva la sua «assoluta apoliticità», la sua «assoluta indipendenza» nei confronti del regime fascista e del suo duce. Al pari di innumerevoli intellettuali, giuristi, economisti, scienziati, scrittori, artisti, vecchi e giovani, e persino di molti ex gerarchi, nell’immediato dopoguerra riuscì anche a Piacentini di spalmare dense pennellate di biacca sul suo ventennale passato fascista.
Alla pena dell’epurazione, l’anziano architetto (era nato a Roma il 18 maggio 1881) si sottrasse per intercessione di Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo De Gasperi. Sopravvisse anche alle accuse di chi, fra gli architetti italiani antifascisti, lo designava «come capo della camorra professionale e profittatore del regime, avendo fatto della professione il più sfacciato affarismo»; e fu reintegrato nell’università come ordinario della cattedra che gli era stata conferita nel 1929 per “chiara fama” dal governo fascista.
Inseritosi abilmente nella Italia repubblicana, Piacentini fu nuovamente incaricato di compiere importanti opere architettoniche e urbanistiche, specialmente nella capitale, come il completamento della Via della Conciliazione, nell’Anno Santo del 1950, godendo della protezione dei governanti democristiani e della benevolenza del Vaticano. Così come ebbe l’incarico di riprendere, con opportuni adattamenti e revisioni, la costruzione dell’Eur, l’immensa impresa concepita dal defunto duce nel 1935, e fin dall’inizio dal duce stesso affidata a Piacentini, per edificare una nuova Roma mussoliniana. L’architetto romano continuò a partecipare all’attività del Comitato di consulenza per l’Eur fino alla sua morte, avvenuta il 18 maggio 1960.
Tuttavia, nel nuovo regime democratico, l’architetto visse intimamente con forte disagio, acuito dalla vecchiaia e dalla sconforto «per le nostre vite attuali... tormentate e insopportabili: tutte uguali, vuote di qualsiasi contenuto spirituale». In privato, Piacentini definiva i nuovi governanti «gente, la cui divisa è soltanto questa: muoia l’Italia, purché non muoia il mio partito», lamentava che il Paese «si arrabatta, si arrampica, si industria: vive nonostante il Governo». Era disgustato dalla politica: «Che brutta malattia la politica, questa nostra miserevole politica».
Citando questo sfogo, Paolo Nicoloso, nella sua recente biografia di Piacentini, lo definisce «paradossale», perché «proviene da un architetto che ha sempre vissuto in simbiosi con il potere politico», e che «più di tutti in Italia si è sempre avvalso del sostegno dei politici più potenti di ogni regime – monarchico, fascista e repubblicano – per ottenere successo nella carriera». Il successo Piacentini lo ebbe per oltre trent’anni, ininterrottamente, a partire dal 1911, quando intraprese la sua attività nell’Italia giolittiana, con la protezione di influenti esponenti della massoneria, per arrivare trent’anni dopo, nell’Italia mussoliniana, all’apogeo della sua ascesa, come l’architetto più potente e più influente, chiamato dal duce a progettare e a realizzare le più importanti opere monumentali del “fascismo di pietra”, come la nuova Roma dell’Eur, che avrebbero perpetuato nei secoli futuri la grandezza del duce e della civiltà fascista.
Soprattutto durante il regime fascista, l’attività di Piacentini fu intensa e frenetica, come documenta Nicoloso, che ha adottato una scansione annuale nel racconto biografico, coinvolgendo così il lettore nell’incalzante ascesa professionale dell’architetto. Instancabile e insaziabile, di anno in anno Piacentini cumulò incarichi su incarichi, commissioni su commissioni, in Italia e all’estero. Abilissimo nel tessere la trama delle sue ambizioni e dei suoi interessi, intrecciandola innanzi tutto con il potere politico, e, nello stesso tempo, con importanti circoli finanziari, accademici, giornalistici, negli anni del fascismo Piacentini si collocò al centro di una rete sempre più fitta e ampia di relazioni, conquistando, in campo architettonico e urbanistico, un potere immenso, quale nessun altro architetto ha mai avuto nell’Italia unita.
È forse eccessivo definire Piacentini «l’architetto del regime». Altri architetti, più giovani di lui, diedero con entusiasmo la loro opera per assecondare l’ambizione mussoliniana di fissare indelebilmente la sua impronta pietrificata a Roma e nelle principali città italiane. Lo stesso Piacentini, quando nel 1935 ebbe dal duce l’incarico di costruire la nuova Città universitaria della capitale, chiamò a collaborare giovani architetti razionalisti, come Giuseppe Pagano e Giuseppe Terragni, coinvolgendoli nella realizzazione di un «indirizzo unitario» che avrebbe dovuto costituire, con un monumentalismo italiano, insieme modernista e classicheggiante, il nuovo «stile littorio».
Certamente Piacentini fu l’architetto preferito dal duce. Il quale, come Nicoloso ha dimostrato in un altro importante libro sull’architettura italiana durante il ventennio fascista (Mussolini architetto, Einaudi 2008), volle sempre avere l’ultima parola nella scelta delle principali opere architettoniche e urbanistiche che dovevano tramandare la sua gloria nei secoli futuri. Mussolini aveva in massima considerazione la funzione politica dell’architettura e dell’urbanistica. A differenza di Hitler, nemico implacabile del razionalismo modernista, nel primo decennio del regime Mussolini si compiacque di esibire la modernità del suo gusto estetico, che non dismise completamente neppure nel secondo decennio, quando, conquistata l’Etiopia, prevalse, nell’eclettico sincretismo mussoliniano, la monumentalità romanizzante, ritenuta più confacente all’impero risorto sui colli fatali. «Mussolini adesso ordina a tutti romanità, monumentalità, italianità, grandiosità, solidità», annotava nel 1938 il critico Ugo Ojetti, visitando i luoghi dove doveva essere costruita la nuova Roma mussoliniana. E il duce trovò sempre in Piacentini il più zelante interprete ed esecutore della sua volontà.