Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2019
Hélène, l’ultima infatuazione di Proust
Durante la prima guerra mondiale, Marcel Proust cenava spesso al Ritz. Arrivava sempre con almeno un’ora di ritardo, riluttante a scendere dal suo sogno come un aviatore che esita ad atterrare. Malgrado il senso di colpa per il ritardo, spesso si fermava a un tavolo per salutare dei conoscenti. Quando alla fine si sedeva, si formava subito intorno a lui una corona di camerieri, sedotti dalla sua gentilezza e dalla sua prodigalità. Talvolta, senza togliersi il pesante cappotto foderato di pelliccia, rompeva il consueto digiuno per spilluzzicare un’insalata bevendo molti caffè.
Lo splendore orientale degli occhi cerchiati dall’insonnia veniva accentuato dal suo pallore estremo. Presto il nodo della cravatta si storceva sull’alto colletto e lo sparato perdeva la sua rigidezza. La sua voce sembrava affiorare da una lontananza inaudita, «un’indimenticabile voce di fantasma, satirica e benevola», ricorda Morand in uno degli scritti raccolti in questo prezioso volume insieme a molte lettere inedite in Italia.
In quella biblioteca vivente dell’alta società Proust consultava, a loro insaputa, alcuni dei personaggi destinati a finire nel suo romanzo. Ma la persona che preferiva era una «signora meravigliosa», una bellissima romena, la principessa Hélène Soutzo. La sera in cui, nel 1917, un giovane scrittore, il diplomatico Paul Morand, suo futuro marito, gliela presentò, Proust «studiò il suo scialle nero e il suo manicotto d’ermellino come un entomologo tutto preso dalle nervature delle ali di una lucciola, mentre i camerieri volteggiavano intorno». Presto, però, dovette accorgersi della vastità e della profondità della cultura di quella straniera. Quando decideva di farle visita, la cameriera, la celebre Céleste, le telefonava: «Marcel Proust, che ha paura di morire la settimana prossima, chiede se può venire a farle visita stasera». Poi Proust calcolava insieme alla cameriera il tempo necessario per una minuziosa preparazione, che andava dal pediluvio alla venuta del barbiere fino al riscaldamento della biancheria da indossare.
La Soutzo era affascinata dalla sua conversazione e le piaceva far vedere a Morand quanto fosse apprezzata da quell’eccentrico genio. Appena Proust manifestava il desiderio di fare una conoscenza necessaria per il suo libro, la principessa gliela faceva incontrare. Gli narrava tutti i pettegolezzi, dettagliando i particolari degli abiti femminili. Lo scrittore si divertiva di tanta sollecitudine. «Credo che mi faccia davvero la corte. Oggi le ho detto: “Ma lei è sposata, signora” e volete sapere cosa mi ha risposto? “Non conta nulla!”. Per un po’ avrei creduto che volesse sposarmi».
In realtà Proust aveva intuito che Hélène si stava preparando a sposare Paul Morand e quello che inseguiva non era un flirt, impossibile per la sua omosessualità, quanto il calore emanante dalla tensione amorosa di quella giovane coppia. Molti anni dopo Morand si divertiva ancora a raccontare come l’aveva conosciuto. Erano le undici e mezzo di sera dell’agosto 1915 e stava dormendo quando aveva sentito squillare il campanello. Era andato ad aprire in pigiama e si era trovato davanti uno sconosciuto terreo, infagottato in un pesante cappotto col colletto di lontra benché facesse caldo. Era vestito alla moda del 1905, l’anno in cui le sue uscite avevano iniziato a diradarsi. Aveva grandi occhi bistrati, magnifici denti, una voce molto dolce e autorevole. Era venuto, si scusò, perché gli avevano riferito una frase lusinghiera di Morand sulla sua opera. Mentre si spiegava, l’altro, affascinato, assaporava il suo labirintico modo di parlare, incredibilmente simile al suo stile letterario. «Quella frase musicale, arguta, raziocinante, che rispondeva a obiezioni che non si pensava di formulare… sottile nelle interruzioni e nei cavilli, che stordiva nelle parentesi, che la tenevano in aria come dei palloni, vertiginosa per la sua lunghezza».
Malgrado la sua fragilità, Proust non temeva i bombardamenti tedeschi sulla capitale. «Una sera conversavamo al Ritz quando, d’un tratto, i vetri d’una finestra si frantumarono in mille pezzi; in un fracasso terrificante, due bombe tedesche erano cadute a qualche decina di metri dall’albergo. “Incantevole”, fece Proust, seccato d’essere interrotto e, alzando appena lo sguardo, terminò la sua frase nel bel mezzo delle esplosioni».
Con ben altra intensità deflagrò l’indignazione dello scrittore per l’indiscreta Ode a Marcel Proust, in cui Morand alludeva esplicitamente alle sue scorribande notturne nel mondo delle case chiuse omosessuali. «Proust a quali convegni andate nella notte / per ritornare con occhi così lucidi e stanchi / Quali spaventi a noi preclusi avete conosciuto / per tornare così indulgente e così buono?». Proust aveva sempre tenuto nascoste le sue inclinazioni temendo che lo scandalo nuocesse alla sua opera e si era sentito intimamente ferito da quella che gli sembrava un’inspiegabile leggerezza. Poi, con la smisurata capacità di comprensione, riuscì a superare la delusione. E proprio lui, che era ossessionato dall’idea di finire la Ricerca del tempo perduto prima di una morte che sentiva imminente, trovò il tempo di scrivere una prefazione a Tendres stocks, il primo libro del diplomatico.
Da Proust Morand aveva imparato una grande lezione, cioè a non morire per la propria opera. A volte mostrava una foto: «Marcel sul letto di morte. L’ho fatta io. Come sono maldestro… C’è solo questo esemplare. Il negativo mi si è bruciato tra le mani mentre lo stampavo. Ma guardate quegli occhi da visionario: lo divorano tutto».