Il Sole 24 Ore, 5 maggio 2019
Storie di Npl zombi
l nome è accattivante: «Progetto Pelican». Ricorda un po’ il giallo di John Grisham. Evoca interesse. Mistero. Letteratura. Cinema. In realtà, in questo caso, Pelican è ciò che di meno accattivante possa esistere sui mercati finanziari: è infatti il nome che Credit Agricole Cib ha dato a un’operazione con la quale sta cercando di rivendere vecchissimi crediti in sofferenza di varie banche italiane che lei stessa aveva comprato. Mutui e finanziamenti vari di Carisbo, di Sanpaolo (quando ancora non stava con Intesa), di Bnl e di altre banche finiti in sofferenza decenni fa e cartolarizzati già tra gli anni ’90 e i primi anni del 2000. Mummie finanziarie che oggi – dopo essere state più volte vendute, impacchettate e ricartolarizzate – girano ancora sui tavoli degli operatori specializzati. Come un gigantesco gioco del cerino, la storia di Pelican (simile a molte altre) racconta dunque cosa accade davvero ai crediti in sofferenza che le banche vendono. Girano per anni, passano di mano in mano. Come zombie senza pace. Seminano talvolta più vinti che vincitori tra gli investitori. E, in mezzo a tutto ciò, ci sono le famiglie i cui debiti passano di mano in mano.
Questa storia – una delle tante – è emblematica per immaginare cosa possa accadere in futuro all’attuale tornata di crediti in sofferenza che le banche italiane stanno vendendo attraverso cartolarizzazioni. Perché se all’inizio questo mercato attira investitori convinti di fare l’affare (e il più delle volte lo fanno), dopo i primi anni in cui i profitti sono facili restano montagne di crediti molto difficili da recuperare. In gergo gli addetti ai lavori le chiamano «code»: sono le parti meno buone dei pacchetti di Npl, quelle che gli investitori vendono e rivendono per creare plusvalenze sperando talvolta di passare ad altri il “cerino”. Quelle su cui a volte si usa anche l’ingegneria finanziaria per mascherare perdite che altrimenti bisognerebbe mettere in bilancio. Così è accaduto in passato. Accadrà così anche in futuro, sui crediti che le banche vendono oggi? Nessuno lo sa, ovvio. Ma i primi indizi non lasciano ben sperare: già Moody’s ha messo in guardia sul fatto che le performance delle cartolarizzazioni di crediti in sofferenza di questi ultimissimi anni «stanno andando peggio delle previsioni». Considerando che in queste ultime cartolarizzazioni c’è spesso la garanzia statale (Gacs), qualche domanda bisogna porsela: il rischio che alla fine lo Stato dovrà mettere soldi veri – secondo alcuni addetti ai lavori – anche se ancora lontano non è da escludere.
La storia infinita
Ecco perché vale la pena raccontare la storia di Pelican: perché mostra – insieme a tante altre simili – cosa è accaduto ai vecchi crediti in sofferenza. Attraverso questa operazione, come detto, Credit Agricole Corporate Investment Bank sta cercando di vendere tutti i titoli (con i relativi crediti in sofferenza) di due vecchie cartolarizzazioni. Anche loro avevano nomi accattivanti: Sagrantino (come il vino umbro) e Calliope (come la mitologica musa figlia di Zeus). Sagrantino è una cartolarizzazione fatta nel 2007 da Calyon e Morgan Stanley, che a sua volta impacchettava 11 gruppi di crediti in sofferenza derivanti da altrettante cartolarizzazioni. Molto più vecchie: si tratta per esempio di quelle chiamate ICR 123, 5 e 6, fatte da Morgan Stanley anni prima. Ma anche la ICR 123 è frutto di un impacchettamento di altre tre cartolarizzazioni, fatte sempre da Morgan Stanley a partire dal 1996. Preistoria, insomma. Calliope è invece un’operazione più semplice, su circa 5mila crediti di Bnl, fatta da Pirelli e Calyon.
Se vi siete persi, non vi preoccupate: anche gli addetti ai lavori si perdono. «Il Sole 24 Ore» per ricostruire questi passaggi ha dovuto incrociare documenti e molte testimonianze dirette. Credit Agricole, contattata, ha invece preferito rispondere «no comment». In realtà i passaggi sono ancora di più. Ma non è questo il punto. Il punto vero è la storia che ci sta dietro. Le prime cartolarizzazioni di Morgan Stanley – lo riferiscono testimoni diretti – erano andate abbastanza bene. Ma nel 2006-2007 la banca americana decide di vendere i tantissimi crediti non ancora recuperati. Le «code», appunto: per questo li impacchetta in una nuova operazione. Cioè Sagrantino. Contemporaneamente Pirelli compra da Morgan Stanley la società di recupero crediti, fondendola con Pirelli Credit Servicing. Credit Agricole viene chiamata in questo momento a sostituire Morgan Stanley: viene così creata una società lussemburghese (DGAD) che è al 65% di Credit Agricole e al 35% di Pirelli. Morale: la banca Usa esce dal mercato italiano e il pacchetto passa ai francesi e agli italiani.
Testimoni diretti dicono che già a quei tempi i recuperi dei crediti non andavano come previsto. Ma dal 2008-2009, quando il mondo finisce nella più grande crisi finanziaria della storia, tutto peggiora. E le perdite arrivano. A ottobre 2009 Fitch declassa alcune tranche di obbligazioni perché – scrive in una nota – «il recupero dei crediti è al 61% di quanto prevedeva il business plan originario elaborato dal servicer». I bond senior (quelli più sicuri) li aveva la stessa Credit Agricole, mentre i bond meno sicuri (quelli junior) erano dentro DGAD. Sta di fatto che a questo punto Credit Agricole compra il 20% della società di recupero-crediti di Pirelli (Pirelli Credit Servicing) ed eroga un finanziamento a DGAD. Fino ai giorni nostri, quando anche Credit Agricole Cib decide di gettare la spugna e di rivendere tutto con l’operazione Pelican. Ora – si dice sul mercato – divisa in più pacchetti.
Se si confrontano i numeri di oggi delle cartolarizzazioni Sagrantino e Calliope, si capisce cosa le società di recupero crediti (i cosiddetti servicer) siano riuscite a fare in questi lunghi 12 anni: nel 2007 dentro Sagrantino erano impacchettati 19mila crediti per 2,5 miliardi di valore lordo (dato di Fitch), mentre oggi sono rimasti quasi 9mila crediti per un valore lordo di 1,3 miliardi (dato del Progetto Pelican). Insomma: circa la metà dei crediti è ancora lì. Senza contare il fatto che Sagrantino stessa nel 2015 ha venduto parte dei suoi crediti a un altro veicolo, Lutezia: senza questa vendita, i crediti in Sagrantino sarebbero ancora di più oggi. «Le società di recupero lamentano tempi nei Tribunali più lunghi del previsto», scriveva Fitch nel 2009. Sta di fatto – dicono vari addetti ai lavori – che le vecchie cartolarizzazioni di Npl hanno fatto più vinti (tra gli investitori) che vincitori. Perché la storia di Sagrantino non è isolata. Girano per esempio ancora, con nomi nuovi, le vecchie cartolarizzazioni Trevi fatte da Banca di Roma a fine anni ’90. Sono quasi tutte così, anche perché in Italia i crediti non “scadono” mai. A differenza di altri Paesi.
Le «code» che scottano
Veniamo allora ai giorni nostri. Le cartolarizzazioni di oggi, con cui vengono realizzate le maxi-cessioni di crediti in sofferenza da parte delle banche, hanno qualche aspetto ancora più delicato rispetto a quelle di fine anni ’90. Oggi – grazie alle Gacs, cioè alle garanzie pubbliche – le banche hanno per esempio venduto pacchetti di crediti a prezzi talvolta più elevati. Nel caso di Calliope, del 2005, i crediti (in parte ipotecari e in parte no) vennero venduti da Bnl al 17% del loro valore lordo originale. «Questo livello allora creò scalpore – ricorda un protagonista della vicenda – perché era considerato troppo alto». Ebbene: oggi, proprio grazie alle Gacs, alcuni pacchettoni sono stati venduti a prezzi ancora più elevati. Mps, per esempio, nel 2017 ha ceduto 26 miliardi di crediti in sofferenza a un prezzo pari al 21% del valore nominale. La Popolare di Bari nel 2016 ha venduto Npl al 30% del loro valore lordo, grazie alla prima cartolarizzazione assistita dalle garanzie pubbliche. È vero che ogni pacchetto ha una storia specifica e che i confronti non sono facili, ma – in generale – più i crediti in sofferenza sono venduti dalle banche a prezzi elevati più è difficile poi che il loro recupero riesca a soddisfare tutti gli investitori. Per questo in tanti temono che lo Stato alla fine potrebbe essere costretto a onorare le garanzie Gacs (che sono solo sui bond senior), con soldi pubblici. Vedremo.
C’è poi oggi un’altra aggravante: il recupero dei crediti sta già andando male. Già ora. Lo certifica Moody’s, in un rapporto recente: su otto cartolarizzazioni realizzate da banche italiane tra il 2016 e il 2018 su crediti in sofferenza – scrive -, «sei stanno mostrando tassi di recupero dei crediti inferiori a quelli anticipati nei piani industriali, mentre solo due vanno meglio del previsto». Questo è un guaio perché i primi anni sono quelli solitamente più facili per chi recupera crediti in sofferenza. Il motivo è ovvio: all’interno dei grandi portafogli di Npl ci sono alcuni crediti facili da recuperare (quelli sui quali sono già avviate trattative o pagamenti), mentre altri sono ben più difficili. Tante sofferenze sono addirittura irrecuperabili: perché i debitori sono nullatenenti, spariti, espatriati, deceduti o per mille motivi. Per questo nei primi anni solitamente le cartolarizzazioni vanno bene, mentre poi restano le «code». Ebbene: se questa volta anche nei primi anni il recupero crediti mostra crepe, il rischio è che in futuro vada peggio. Anche perché l’economia italiana sta rallentando, il che non facilita.