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 2019  maggio 05 Domenica calendario

A tavola con Antonio Sellerio

«Venivo qui con mio padre Enzo. Lo stesso facevo con mia madre Elvira. Io, lei e gli autori di passaggio a Palermo». Dalle grandi vetrate entra la luce strana di un giorno di aprile con pioggia minuta e persistente, nuvolaglia in cielo e umidità in terra. Nel quartiere di Borgo Vecchio Antonio Sellerio e io siamo al Piccolo Napoli, un ristorante che dà su Piazza dei Mulini a Vento, e accidenti se ci voleva il seme di una follia degna di Cervantes per fondare – cinquant’anni fa, nel 1969 – una casa editrice qui a Palermo.
Antonio, 47 anni, ha un vestito grigio e una camicia azzurra, niente cravatta, un naso prominente ma non sgraziato, capelli rossi, occhi indefinibili fra l’azzurro, il grigio e il verde incassati sotto le sopracciglia folte, lentiggini che gli conferiscono un’aria da ragazzo appena entrato nella adolescenza. «Mio padre era un fotografo. Mia mamma una funzionaria dell’ente regionale per la riforma agraria. Non sapevano nulla di editoria. I primi contratti vennero stilati usando come modello quelli di Leonardo Sciascia con Einaudi».
Scegliamo che cosa mangiare. Di antipasto Antonio prende del pesce crudo. Io una caponata di melanzane. Per il vino è lui stesso a suggerire un bianco siciliano, il Maria Costanza dell’azienda agricola G. Milazzo. Leonardo Sciascia, dunque. Mentre lui assaggia il vino («un poco fruttato, ma buono»), mi vengono in mente le nove stanze della casa editrice di Via Siracusa e la poltrona di Sciascia. Racconta Antonio: «Il nostro magazziniere, Stefano, lo andava a prendere ogni giorno in macchina a casa, dopo pranzo. Leonardo stava seduto tutto il pomeriggio sulla poltrona a fianco della scrivania di mia madre. Leggeva, scriveva, fumava».
L’edificazione di una casa editrice è la costruzione di un progetto: culturale e civile, imprenditoriale e comunitario. E il progetto, se non è fasullo e fragile, può vivere tempi difficili, ma è duraturo. Oggi, a cinquant’anni dalla fondazione, la casa editrice pubblica fra i 50 e i 60 titoli nuovi all’anno. Nel 2018 è stata prima in classifica per ventitré settimane – quasi la metà dell’anno – alternando in testa alle vendite Il metodo Catalanotti di Andrea Camilleri, Mio caro serial killer di Alicia Giménez-Bartlet, Fate il vostro gioco L’anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone di Antonio Manzini.
La Sellerio è opera di Enzo ed Elvira Sellerio. Sciascia è fondamentale. Nelle cose minime e nelle cose più grandi. «All’inizio – ricorda – Leonardo faceva di tutto: dalle schede per la rete vendita ai risvolti dei libri». Per Antonio – e per sua sorella Olivia, che lavora in casa editrice ed è anche una affermata cantante – Sciascia non fa parte soltanto del mito fondativo della casa editrice. Era anche un amico di famiglia. «Una volta al mese andavamo in campagna nella sua casa di Racalmuto. Vorrei dire di avere parlato con lui di Voltaire. Ma non è così. Ho invece sparato alle lattine con il suo fucile di caccia», sorride Antonio.
Nel 1979, nasce la collana La Memoria, che include classici latini e greci, narrativa contemporanea e gialli, allora considerati poca cosa, un mondo a parte e minore. In quel momento la casa editrice ha già dieci anni. Quella collana è un esempio del metodo di lavoro e della vita della Sellerio di allora: «Sciascia ebbe l’idea e trovò il nome della collana. I contenuti erano in prevalenza compito suo e di mia madre. La tipologia dei libri è stata definita da mia madre e da mio padre. La grafica è di mio padre», dice. 
In tavola arriva del polpo bollito. La Sellerio è la storia di una città e di un’isola, di un Paese e di una sinistra illuminista, di una cultura che precede e informa la vita civile e la vita politica. Insieme a Sciascia, in Via Siracusa i più assidui erano l’antropologo Antonino Buttitta e l’archeologo dei resti di Selinunte Vincenzo Tusa. La casa editrice assume una crescente consistenza grazie ai libri riservatele dallo stesso Sciascia (per esempio, L’Affaire Moro del 1978 e Stendhal e la Sicilia del 1984) e a casi editoriali – e culturali – come, nel 1981, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino e, nel 1984, Notturno Indiano di Antonio Tabucchi.
Nel 1983, Enzo e Elvira si lasciano. La casa editrice si divide in due case editrici, una di arte e fotografia e una di saggistica e narrativa. «Le abitazioni dei nostri genitori erano vicinissime. Entrambe a pochi passi dall’ufficio. Il grande appartamento originario della Sellerio fu diviso in due. Nonostante la separazione e la divisione della casa editrice, sul lavoro loro due si confrontavano molto e alle sette di sera lui veniva a bere il whisky, nella stanza di lei, con Leonardo e gli altri. Quando entrambi non ci sono più stati, io e mia sorella Olivia abbiamo deciso di tirare giù il muro che separava le due parti, quella di mamma e quella di papà. E, allora, abbiamo scoperto che no, non c’era nessun muro. C’era solo una libreria», dice Antonio con lo sguardo enigmatico del figlio che pensa ai due genitori, alle loro felicità e alle loro tristezze, alle loro solitudini e ai loro amori.
Dalla cucina portano il pesce San Pietro all’acqua pazza. Fuori minaccia pioggia. Antonio continua: «Gli anni Ottanta furono di grande spolvero. La casa editrice aveva ormai una sua precisa e nitida identità: nel marchio e nei libri come oggetti che si riconoscono a distanza. Le vendite andavano bene. Gli anni Novanta sono stati più complicati. Il credito bancario era più razionato. Tutte le piccole case editrici avevano un tema di liquidità».
Antonio ha vissuto la casa editrice già da ragazzo: «Mia madre, quando era con un autore, mi diceva spesso “stai qui”, io avrei preferito magari fare altro, ma le davo ascolto e mi fermavo nella sua stanza o andavo a pranzo con loro». Dopo il diploma al liceo classico Garibaldi di Palermo, frequenta economia aziendale alla Bocconi di Milano: «Quell’università non mi vincolava. La scelta era stata ponderata. O andavo in casa editrice. E avrei potuto fare la mia parte. O sceglievo un’altra strada». Nel 1996 si laurea e, nel 1997, entra in Sellerio. «Il primo anno non avevo la scrivania. Stavo nella stanza di mia madre Elvira, dove lei lavorava fumando due pacchetti al giorno di Benson & Hedges. Facevo i budget con i fogli Excel. Lei li controllava con il suo pennino. In questo, qualche volta manifestava fastidio e durezza. Ho capito dopo. Mia madre cercava di minare le mie certezze: non voleva che un eccesso di autostima producesse un abbassamento dell’attenzione. Invece, cercava di rafforzarmi nelle opinioni sui libri. Io leggevo un manoscritto. Ne parlavo con lei e lei mi ascoltava con grande attenzione. In questo, non ha mai manifestato fastidio o durezza».
Gli anni Novanta non sono, appunto, semplici. Ma è allora che si solidificano le basi per i risultati attuali, nel continuum di una casa editrice fondata nel 1969 che è riuscita a tenere in mano il filo del suo gomitolo – blu come le copertine dei suoi libri – nonostante la scomparsa di tre personalità magnetiche e fortissime come Leonardo Sciascia, avvenuta trent’anni fa, Elvira Sellerio, nel 2010, e Enzo Sellerio, due anni dopo. Andrea Camilleri, che nel 1984 aveva esordito con La strage dimenticata, pubblica nel 1995 Il birraio di Preston e nel 1998 La concessione del telefono. «Già il suo primo saggio, sui 114 galeotti uccisi dalla polizia nel 1848 per il timore che si unissero agli insorti contro i Borboni, era scritto in una lingua inventata. Sciascia sulle prime ne fu perplesso. La lingua inventata di solito è adoperata per la letteratura. Non per ricostruire un episodio storico realmente avvenuto, usando documenti di archivio. Alla fine Leonardo, che stimava molto Camilleri, comprese. Anche se ci vollero molti anni prima del suo successo commerciale».
Oggi l’autore Camilleri è significativo, ma non totalizzante sui risultati della Sellerio: «Pesa per non oltre il 30% del nostro fatturato», nota Antonio. Il lavoro in casa editrice procede secondo l’attitudine artigianale della lettura e della rilettura, del rapporto con gli autori più di nicchia e con quelli di maggiore popolarità – come Gianrico Carofiglio, Antonio Manzini e Marco Malvaldi – nella consapevolezza che basta un nulla – anche se non decrittabile e mai del tutto prevedibile – perché un libro inizi a piacere e poi ad appassionare e infine a vendere, vendere, vendere.
Il cameriere chiede che cosa vogliamo di dolce: «Va bene un cannolo? Normale o destrutturato?». «Meglio destrutturato – suggerisce Antonio – è più facile da mangiare».
In casa editrice, le foto di Elvira ed Enzo Sellerio sono tante e sono bellissime. Elvira e Enzo da ragazzi. Da adulti. Da anziani. Le foto sono bellissime perché i due erano belli e pieni di errori, ironici e severi, intensi e qualche volta dolorosi. Ci portano il caffè, così forte e concentrato da sembrare composto da poche gocce nella tazzina. «Nostra madre alla fine era stanca. Nostro padre anche alla fine era una roccia, mi prendeva in giro dicendomi che aveva più capelli lui di me. Io e mia moglie Chiara abbiamo due figli: Elvira, di tre anni e mezzo, e Federico di un anno e mezzo. Mia sorella Olivia ha un figlio, Lorenzo, di 11 anni. Loro o non hanno conosciuto bene i nonni o non li hanno affatto incontrati. Quando sono morti, abbiamo fatto decine di ore di registrazione con trenta loro amici, che ci hanno raccontato chi erano, per loro, Enzo ed Elvira Sellerio. Un giorno, le faremo vedere ai nostri figli».