La Stampa, 4 maggio 2019
Grande Torino, il successore di Mazzola
«Se loro non fossero morti sarei potuto diventare come Valentino Mazzola». Invece ad Antonio «Tony» Giammarinaro, uno dei baby della Primavera che disputò le ultime 4 partite della stagione dopo la tragedia di Superga, restò solo l’onore di indossare il “10” del capitano del Grande Torino. Perché la speranza di quel 17enne che oggi ha 87 anni di avvicinare il mito finì il 4 maggio.
Giammarinaro, nonostante le grandi aspettative perché nelle 4 stagioni successive in granata non seppe imporsi?
«Fu difficile ripartire da zero, la squadra nuova era scadente e arrivarono anche gli stranieri che ci tolsero visibilità».
Però il numero del capitano se lo tatuò per tutta la carriera…
«Me lo diede Oberdan Ussello, l’allenatore della Primavera. Se non avevo il 10 neanche scendevo in campo».
Il peso della maglia di Mazzola l’ha condizionato in negativo?
«No, quel numero mi alleggeriva, mi dava la forza per imitarlo, per farmi coraggio. Non è mai stato un problema».
Si ricorda la prima partita senza di loro?
«Come se fosse ieri: era contro il Genoa. Piangevo come un bambino, poi segnai il gol del vantaggio».
Dov’era quando seppe della notizia del bimotore?
«Al Filadelfia: arrivò una telefonata al custode. Io e un altro compagno salimmo a Superga in motorino senza cambiarci: fu uno strazio vedere la carlinga ridotta così. La gente urlava, piangeva. Ci spingemmo fino al punto dell’impatto, poi la polizia ci respinse, ma presi un pezzo d’aereo».
È vero che ci sarebbe dovuto salire anche lei?
«Sì, mi salvò la convocazione con la Primavera».
Che cos’era il Grande Torino per lei?
«Un gruppo di uomini veri, prima che di campioni. Me lo sogno tutte le notti: grazie ai loro consigli sono diventato uomo. Gente così non c’è più. Casa mia è tappezzata di foto».
Perché legò subito con Mazzola?
«Quando arrivai a fare il provino non avevo neanche le scarpe da calcio, fu lui a prestarmele. Sovente mi accompagnava all’allenamento, un’estate mi affidò per una settimana il figlio Sandro: eravamo in montagna, a Ceresole Reale».
Lei nacque a Tunisi da genitori siciliani: come arrivò a Torino?
«Grazie ad uno zio. In Africa vivevo molto bene, papà faceva l’imprenditore edile. Ma in Italia ero un profugo, come Pietrangeli e la Cardinale».
È mai più salito a Superga?
«Certo, l’ultima volta due mesi fa».
La memoria degli Invincibili è stata onorata degnamente?
«Trovo penoso che il Grande Torino abbia casa a Grugliasco. Ad una squadra così era d’obbligo trovare un museo nel centro città».