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 2019  maggio 04 Sabato calendario

Ritratto del mondo editoriale

Facevo tutt’altro mestiere e frequentavo altri ambienti. Solo due pubblicazioni nel 2006 (Sangue marcio) e 2007 (La giostra dei criceti) poi più nulla, sceneggiature per lo più. Nel 2013 il primo libro con protagonista Rocco Schiavone e mi sono ritrovato a vivere l’ambiente dell’editoria di cui ne sapevo poco o niente. Tutto era nuovo per me e allora me ne stavo d parte e osservavo. I saloni di Torino, i cortili di Mantova, le tensostrutture di Pordenone. Raccoglievo impressioni sulla mia pelle e su quella degli altri. Ascoltavo. Nuovi vocaboli sono entrati nella mia vita diventando parole abitudinarie: rendicontazioni, classifiche, tirature, presentazioni, critiche, festival, «grandedistribuzione», «quartadicopertina», strillo, prefazione, postfazione. Persone nuove sono diventate frequentazioni abituali, io che conoscevo solo due scrittori, seppure fra i più importanti d’Italia, e a malapena un «ufficiostampa» (altra parola entrata nel lessico familiare, dico parola anche se sono due perché ufficiostampa si dice tutto attaccato come grandedistribuzione e quartadicopertina). 
Venivo dal cinema e dal teatro dove le persone inseguono soprattutto i soldi perché fare cinema e fare teatro costa, e costa troppo. E se insegui i soldi spesso perdi di vista altro, che poi magari è il motivo fondamentale della ricerca stessa dei soldi. Non che nell’editoria i soldi non siano importanti ma percepivo che alla fin fine il libro restava sempre al centro dell’attenzione di tutti (nel cinema il racconto viene al quarto posto dopo sovvenzioni, percentuali e marketing). Mi piaceva questo ambiente, forse perché nuovo, come dicevo, inusitato, sicuramente folle. E dovevo raccontarlo. Avevo già cominciato a farlo con un altro breve romanzo grottesco, Sull’orlo del precipizio in cui immaginavo (sic) la fusione di due fra le più grandi case editrici del paese e le conseguenze di un tale matrimonio. Era un racconto distopico perché surreale ritenevo quell’unione appena avvenuta qualche mese prima che mi mettessi a scrivere. Ma in sei anni di continua frequentazione di quel mondo ogni giorno raccoglievo idee e sensazioni. Scrivevo racconti, ora dedicati a una libreria ora a una presentazione, ora a un critico ora a un ufficiostampa e mi divertivo un mondo a fissare sulla carta le storie. È nato così Ogni riferimento è puramente casuale come un diario, appunti di viaggio in una terra da esplorare. Non so se questo sia un libro per addetti ai lavori, non credo, meglio spero di no, l’intenzione era raccontare a mia sorella che è un cardiologo o a suo marito giornalista alla camera dei deputati questo milieu a volte respingente, a volte intossicante, anche accogliente per chi, come me, ha avuto un briciolo di fortuna. 
Da ragazzo ho sempre pensato all’editoria come un luogo serissimo e un po’ polveroso fatto di severi professori e aspiranti suicidi. I libri per me erano soprattutto studio, copertine monocolori, sudore e fatica. Mai avrei immaginato di essere a chilometri di distanza dalla realtà. Forse perché l’editoria è cambiata, sono arrivati i colori nelle copertine e soprattutto s’è rotto l’argine, il vallo, e i barbari sono penetrati nei salotti buoni. Hanno cominciato a scrivere tutti, perfino io. Come potevo non raccontarlo? Episodi grotteschi, comici, surreali. Tutto quello che c’è dietro la pubblicazione di un libro è diventato più interessante dello sbirciare dietro le quinte del teatro, come facevo anni fa. Scoprire che l’andare in scena avviene sia con l’alzata di un sipario che quando tocca mostrarsi davanti a un pubblico non armato di testo scenografia e regia ma solo di te stesso e della tua coda di pavone un po’ spelacchiata. Ho visto cose, (direbbe il replicante) ... scrittori e scrittrici idolatrati e poi dimenticati alla prima classifica mancata, la follia geniale di qualche editore e la follia pura e senza altri esiti che la follia stessa di qualcun’altro, montagne di manoscritti in fiamme dietro le porte di Orione, gente che ha migliorato Guerra e pace affermare che oltre ai diritti d’autore si dovrebbero considerare anche i doveri. È un mondo, un universo da raccontare, io ho solo scheggiato la punta di un iceberg. 
Sono poche le persone che lavorano nell’editoria, le incontri sempre anno dopo anno. Magari hanno cambiato casa editrice, o non lavorano più in quel festival, hanno chiuso la libreria (lutto!) o cambiato mestiere per andare, che so?, a restaurare antichi cortili o dimore storiche. Siamo sempre gli stessi, anno dopo anno che parliamo sempre delle stese cose, che invecchiamo e ci rincoglioniamo ripetendo a Mantova nel 2018 quello che di cui avevamo discettato nel 2017. C’è anche chi si aggira nelle cittadine che ospitano i raduni di questa nostra fauna con gli occhiali da sole temendo di essere riconosciuto (!) e sentendosi, un giorno nella vita, un po’ star hollywoodiana (inutile dire che a nessun passante è mai venuto in mente di chiedere loro un autografo, ah vanità vanità). Tanto che per rompere la monotonia, eravamo in quattro, io, un ex ufficiostampa, un altro scrittore e un responsabile della narrativa italiana di una casa editrice (non faccio nomi) che tiravamo la notte coi denti al tavolino del bar ormai chiuso in piazza Sordello a fare l’esegesi dei testi di Umberto Tozzi o dei Matia Bazar o a parlare dell’importanza dell’impatto di Scialpi sulle generazioni degli anni ’90. Perché? Voglia di stare insieme in una bolla d’aria e cercare in fondo di decodificare cazzeggiando e parlando d’altro quello che stava succedendo perché tutto sommato i libri non salvano le vite. I cardiochirurghi invece sì. La mattina seguente si sarebbe ripreso a contare le presentazioni su e giù per la penisola come facevano le vecchie compagnie di teatro, e a parlare di rendicontazioni, classifiche, tirature, critiche, festival, grandedistribuzione, quartadicopertina, strillo, prefazione, postfazione. Non potevo non raccontare questo mondo di carta e di sogni infranti, un po’ ridicolo e un po’ tragico in cui, ahimé, mi pare si respiri aria di fine impero. 
Forse proprio per colpa dei barbari.