La Stampa, 4 maggio 2019
Intervista a Frankie hi-nrg mc
Si accusa di vendersi all’incanto chi intanto fa il possibile per render più accessibile il messaggio al largo pubblico… e faccio la mia cosa». Vola alto con la sua prosa ermetica e un po’ poetica il gran guru del rap italiano: ma non c’è da stupirsi, ama i doppi e i tripli sensi Frankie hi-nrg mc, al secolo Francesco Di Gesù (che ha mutuato lo pseudonimo dalla sigla di un sottogenere musicale a cui ha aggiunto mc, maestro di cerimonie sinonimo di rapper nel gergo giovanile). Faccio la mia cosa è il titolo di un brano del geniale menestrello e allude alla capacità dei suoi versi di essere provocatori e taglienti. Adesso Faccio la mia cosa è anche il titolo della sua bella autobiografia in uscita da Mondadori. E in autunno sarà il nome dello spettacolo teatrale che il cantautore in procinto di compiere 50 anni porterà in tour per l’Italia.
Prolifico leader del rap - ha inciso sei album, scritto e diretto oltre quindici video musicali, cumulato riconoscimenti internazionali, dalla rivista Rolling Stone ad Amnesty International - Frankie hi-nrg mc scende così in campo sui temi che considera fondamentali e che rappresentano la sua «cosa» più peculiare: la lotta contro la discriminazione razziale, contro la violenza nei confronti delle donne, contro quelli che «benpensano», contro la mafia e la camorra.
Perché proprio adesso rilancia il messaggio forte del suo «rap contro»?
«Piovra e camorra stanno diventando fenomeni endemici e sempre più pervasivi. Ed è in crescita il razzismo, la diffidenza verso gli “altri” che vengono da lontano. “Le nostre belle case non corrono il pericolo di essere invase, non è un’armata / aliena sbarcata sulla terra”: le parole di Questo non è un film che ho scritto con Fiorella Mannoia le ho sempre presenti come un avvertimento per noi tutti».
Da dove nasce la sua vocazione alla denuncia sociale?
«Sono nato a Torino da genitori sabaudi ma di origini siciliane. Sono venuto via da ragazzino ma questa “città aperta” alla creazione artistica mi è rimasta nel cuore: lì si ritrovava la comunità hip hop più inventiva della Penisola, il Teatro Regio era perfetto con il suo lastricato di marmo per scivolare e danzare. Anche El Paso, il centro sociale che occupava i locali di una vecchia scuola, era una fucina di idee: ti accoglieva un enorme sottomarino dipinto sul muro d’ingresso. Collaboravo alla rivista Skate e provai a realizzare a Torino il mio primo filmino di un graffito illegale. Con un paio di amici, tra cui un writer, ci eravamo appostati dietro Porta Palazzo. Mentre il writer stava iniziando si avvicinarono dei brutti ceffi per impadronirsi di macchine fotografiche e cinepresa. Siamo scappati e ho abbandonato gli esperimenti artistici più pericolosi».
Quando decide di voler dar voce musicale alle sue consapevolezze?
«Al rientro da un festival hip hop vicino Padova. Rimasi sveglio tutta la notte. Mi venivano in mente personaggi come Peppino Impastato o come il carabiniere Mario D’Aleo di Monreale che ho conosciuto e che fu assassinato in un agguato. Ripensavo a una mattina dell’Epifania 1980, quando, con tutta la famiglia, percorremmo a Palermo via Libertà, dove era stato ucciso dalla mafia Piersanti Mattarella, il presidente della Regione Sicilia, e mia zia Rosetta piangeva senza smettere mai. Così nacque il mio primo singolo Fight da faida contro la corruzione e Cosa Nostra».
«Il silenzio è dei perdenti, muti e sorridenti», è un suo verso. Si sente un poeta?
«In anni passati ho partecipato a Modena e a Reggio Emilia a manifestazioni con scrittori del calibro di Edoardo Sanguineti e Tiziano Scarpa di fronte ai quali, altro che poeta!, mi sentivo un pischello. Però dopo il mio esordio capii che stavo acquistando una certa notorietà».
In che occasione?
«Quando mio nonno ebbe bisogno dei sali per riprendersi dall’emozione. Scherzo. In famiglia avevamo un vero culto per Vittorio Gassman, a carnevale mi mascheravo da Brancaleone alle crociate. Mamma e nonno sentirono la sua inconfondibile voce nella segreteria telefonica. Mi cercava perché componessi un brano rap che interpretò nel suo spettacolo Camper con il figlio Alessandro. Anche lavorare con la Mannoia mi ha dato molte soddisfazioni e pure con Simone Cristicchi, grande interprete teatrale».
Oggi i rapper Sfera Ebbasta e Achille Lauro celebrano sballo, scarpe firmate, tanti soldi e poca indignazione. Si sente superato?
«Per nulla. Loro imitano i rapper d’oltreoceano, sono i cantori del materialismo. Dei quattrini e delle pistole. Io invece ho il vizio di voler parlare di argomenti di pubblica utilità. È la cosa che so fare meglio e non l’abbandono».