la Repubblica, 4 maggio 2019
Il capitale delle mafie vale lo 0,2 per cento del Pil
Il potere delle mafie oggi non si misura con gli omicidi, sempre più rari, o con gli attentati del racket, in fortissimo calo. Per comprendere la vera forza della criminalità organizzata è necessario guardare un altro dato: il denaro. La mafia è uno dei principali imprenditori italiani, in grado di mangiare il prossimo anno l’intera crescita economica prevista del nostro Paese. Il dato emerge analizzando il lavoro della Guardia di finanza nel 2018. Da gennaio a dicembre, le Fiamme gialle hanno chiesto di sequestrare beni per quattro miliardi e 800 milioni: una cifra inedita e paurosa, che svela la nuova dimensione delle cosche. Questi patrimoni non sono più fatti da immobili e ristoranti, bar o supermercati, tradizionali forme di riciclaggio. Hanno invece la forma di aziende, catene commerciali, quote societarie, fondi finanziari che puntano sulle assicurazioni o sull’energia.
Investimenti complessi che non possono però essere gestiti dai boss, perché troppo esposti. Ma che sono affidati a una massa di professionisti, abili e insospettabili. Una borghesia collusa scoperta in un solo anno a maneggiare beni per quasi cinque miliardi di euro: più dello 0,2 per cento del Pil, la crescita che il nostro Paese registrerà nel 2019. E stiamo parlando solo dell’attività delle Fiamme gialle, il principale corpo investigativo del settore ma non l’unico. Un esempio: la mafia siciliana ha investito sul petrolio di contrabbando e oltre ai tradizionali canali di guadagno e riciclaggio (narcotraffico, supermercati, immobili) era entrata in istituti di credito e attraverso prestanomi gestiva alberghi, fondi di investimento, società di scommesse all’estero.
Complessivamente, sono stati proposti sequestri per un miliardo di euro. Alla ’ndrangheta 400 milioni in più: avevano infiltrato aziende pubbliche, villaggi turistici, costruito collegamenti con Olanda, Germania, Belgio. Il record delle proposte di sequestro spetta però alla camorra che con un miliardo e mezzo di euro conferma la sua nuova veste di mafia che fa affari più ancora che morti: ha investito sulla benzina di contrabbando, con collegamenti con i Paesi balcanici, infiltrato amministrazioni comunali e aziende sanitarie, puntato su scommesse e centri commerciali. I casalesi, per dire, avevano realizzato un “sofisticato meccanismo per riciclare denaro” spiega la Finanza, “per operazioni di trading in Italia e in Croazia.
“I dati sono importantissimi” spiega a Repubblica il comandante generale, Giorgio Toschi. «Nel corso del 2018 sono state concluse 1.617 investigazioni patrimoniali nei confronti di quasi 11 mila soggetti. Oltre a proporre i sequestri per 4,8 miliardi abbiamo applicato misure per due miliardi e confische per 781 milioni di euro». Il cambio di passo, spiega Toschi, era quasi inevitabile: «Sicuramente la crescente interdipendenza tra “mondo degli affari”, sistemi finanziari, bancari e assicurativi, unitamente alla loro dimensione digitalizzata, hanno offerto nuove e più ampie opportunità alle organizzazioni criminali per diversificare i propri interessi illeciti. A ciò si aggiunga una crescente tendenza delle organizzazioni criminali ad investire non solo nei tradizionali settori legati al ciclo del cemento, al movimento terra e alla ristorazione ma anche in attività nuove per le regioni centro-settentrionali, tra cui la gestione dello smaltimento dei rifiuti, la sanità, lo sport ed i prodotti energetici operando all’interno dei mercati legali con metodi illegali, come ad esempio il ricorso al lavoro nero e alle false fatturazioni, all’inquinamento delle procedure di appalto di opere pubbliche, fino al compimento di atti intimidatori nei confronti della concorrenza».
Un tema centrale che emerge dai dati è quello della geografia rovesciata rispetto ai vecchi luoghi comuni. La mafia preferisce investire al Nord. «Dai dati – si legge nei documenti delle Fiamme gialle – emerge chiaro l’investimento nelle aree “non tradizionali” del Centro Nord, tra cui la Valle d’Aosta, il Piemonte, la Lombardia, il Trentino Alto Adige, la Toscana l’Emilia-Romagna, le Marche». Impressionante la crescita in Emilia-Romagna, regione felice che fino a pochi anni fa si credeva immune dai tentacoli dei clan. Nel 2017 sono stati chiesti sequestri per 246 milioni, lo scorso anno sono raddoppiati: poco più di mezzo miliardo. Questo grazie anche alle nuove tecnologie di investigazione, con banche dati in grado di incrociare operazioni sospette finanziarie, storie delle società e dei soci e appalti pubblici. L’aspetto più inquietante però è la contaminazione del tessuto sociale, con la corruzione che sostituisce le minacce e finisce per aprire le porte ai clan ovunque.
«Uno schema corruttivo più compatto e pervasivo rispetto al passato, costituito da “colletti bianchi” propensi ad un interscambio di risorse su ogni versante e disponibili ad entrare in relazione con altre e più aggressive realtà delinquenziali, tra cui quelle mafiose», riporta il rapporto delle Fiamme gialle. A conferma che oggi per le associazioni criminali l’arma più potente è il denaro.