Il Messaggero, 4 maggio 2019
Il compleanno di Kierkegaard
Domani sarà un anniversario importante per la storia del pensiero. Il 5 Maggio 1813 nacque a infatti a Copenaghen Soren Kierkegaard, uno dei filosofi più studiati in questi ultimi decenni. Senza di lui, non si potrebbe capire tutto il movimento che ha preso il nome di esistenzialismo, e che ha condizionato non solo le accademie ma la letteratura, il cinema, e un modo stesso di vivere. Quando Kierkegaard nacque, suo padre aveva 56 anni e sei figli. Di questi cinque morirono prematuramente, e il lutto aumentò il pessimismo del fanciullo già di sua natura timido e taciturno. Sulla famiglia sembrava gravasse una maledizione, attribuita a una feroce bestemmia rivolta a Dio, anni addietro, proprio dal genitore, che avrebbe poi scontato il peccato con una vita rigorosamente pietistica e austera. Smentendo tutte le teorie freudiane, il ragazzo fu condizionato esclusivamente da questa cupa e ingombrante figura paterna. Si innamorò di una diciottenne ma non si ritenne adatto al matrimonio, forse per evitare di riversare in famiglia le sue pene interiori. Morì a 42 anni rifiutando i conforti religiosi offertigli da un ministro della Chiesa danese: era troppo attaccato a Dio per affidarsi a questa Istituzione che aveva sempre criticato per la sua superficiale mondanità.
LE OPEREMalgrado le astrusità dell’argomento, la lettura delle sue opere è relativamente facile, e gli stessi titoli ne rivelano il motivo dominante: Timore e tremore, Il concetto di angoscia, La malattia mortale. Si capisce subito che, a differenza di quanto proclamavano Seneca e Boezio, non c’è consolazione in questa filosofia, ma soltanto una tensione esistenziale che si risolve in un’adesione incondizionata a Cristo, inteso come incarnazione espiatoria delle nostre insopprimibili angosce. Kierkegaard comincia con il criticare la pretesa hegeliana – allora dominante – di spiegare l’Essenza del mondo con una costruzione razionale. Questa Essenza, cioè l’Umanità, è secondo lui un concetto astratto e inconcludente. L’unica realtà con cui ci confrontiamo è invece l’Esistenza dell’uomo singolo, da cui derivano tutti i nostri drammi personali. Per spiegarci in termini attuali potremmo definire l’Essenza come l’hardware di un computer, uguale per tutti quelli della stessa marca ma vuoto di contenuti.
Mentre l’Esistenza, cioè la situazione concreta del singolo è come il software, cambia in ciascuno di noi, e costituisce il connotato dell’esperienza individuale. Ed è un’esperienza tragica, perché siamo sospesi tra il tutto e il nulla, ogni scelta esclude tutte le altre (Aut aut) e questa infinita possibilità determina l’angoscia dell’incertezza, che soltanto la fede può redimere. Rifugiarsi nel piacere estetizzante (come avrebbe poi ammesso Huysmans) è pura ed effimera illusione. Nemmeno l’etica può costituire valido rimedio; al contrario, la vera fede prescinde dalla morale, come insegna l’ubbidienza di Abramo, che sacrificando Isacco si piega a un comando crudele.
Questa minacciosa sequenza di delusioni è espressa con una tale forza emotiva che ogni animo sensibile ne rimane affascinato. Per questo Kierkegaard è il filosofo dei nostri diciott’anni, quando le prospettive della vita ci sembrano incerte, il nostro intelletto volubile, le nostre velleità incontrollabili. Parafrasando Clemenceau, potremmo dire che chi non è stato kierkegardiano da giovane è senza cuore, e chi è lo ancora da anziano è senza cervello. In effetti la sua filosofia si inserisce in quel filone ideale che da Sant’Agostino, attraverso Lutero e Pascal, considera l’uomo nella sua irrimediabile miseria, dalla quale non può sollevarsi nemmeno con le buone opere, ma soltanto attraverso la fede.
Questi sfiduciati pensatori ammoniscono che senza la prospettiva religiosa la vita sarebbe essenzialmente inutile, e destinata a una fine ineluttabile, dolorosa ed eterna. E la loro modernità consiste nella desolante conferma che né le scoperte della scienza, né gli aiuti della medicina, né tantomeno i progressi dell’economia hanno fornito rimedi soddisfacenti a questi insolubili problemi. Tuttavia la loro conclusione costituisce il loro stesso limite, perché le risposte fornite dalla religione sollevano interrogativi altrettanto imbarazzanti, e il mondo moderno non si ritiene appagato dal sacrificium intellectus richiesto per raggiungere questa artificiosa serenità. Per questo la filosofia di Kierkegaard ha ritrovato più voce nella sua dimensione negativa che in quella fideistica. Il suo esistenzialismo è stato enfatizzato da Jaspers e Heidegger, e ha trovato in Sartre un discepolo eccentrico, che si è rifugiato, alla fine, nella caricaturale versione del marxismo. Ma in tutte queste varianti non c’è posto per la trascendenza, e l’uomo è descritto come «una passione inutile» che recita una commedia rispondendo a domande che nessuno gli pone, in attesa di un finale sempre triste: «un po’ di terra sulla testa, e addio per sempre».
Per questo, mentre riconosciamo a Kierkegaard la penetrante sensibilità di aver squadernato, più di tutte le successive scuole di psicanalisti, le nostre intime tensioni, non possiamo convenire con lui che la disperazione sia il criterio interpretativo della nostra pur precaria apparizione sulla scena del mondo. Una mente sana e matura sa distinguere le varie componenti della vita e le accetta con serenità, senza confondere il contenuto dei valori con la loro durata: come insegnava un altro filosofo, la felicità non è meno vera anche se deve finire, e il pensiero e l’amore non perdono la loro validità perché non sono eterni. In tutta modestia, possiamo aggiungere che la stessa fede viene svilita se è considerata un vantaggioso e accomodante riparo. Si deve credere quando te lo ordina la coscienza, e non quando te lo propone un terapeuta come un confortevole analgesico per le nostre ansie esistenziali.
IL PROGRESSOEcco perché, alla fine, la filosofia di Kierkegaard è tanto attuale quanto insufficiente. Limitandosi a vedere dell’uomo solo la parte negativa, e proponendo un rimedio interessato, non rende giustizia alla nostra complessa natura. L’angoscia della scelta e lo smarrimento delle coscienze sono, è vero, connotati dolorosi della nostra contraddittoria modernità, e oggi l’uomo si trova solo come nel periodo degli Antonini quando, come scriveva Flaubert, «Gli dei non c’erano più e Cristo non c’era ancora». E tuttavia la nostra indole ripudia lo sterile raccoglimento nell’abisso della solitudine, e trova sempre i correttivi che ne esaltano il vigore.
Questi correttivi sono molti, e quasi tutti fruibili gratuitamente da parte di chi vi si accosti con spirito aperto e generoso: l’amore, l’amicizia, l’arte, e il libero pensiero costituiscono da soli elementi che ci orientano a una vita intensa e operosa, nella continua ricerca di un comune progresso materiale e morale. E anche quando la fede vacilla, e la speranza si affievolisce, rimane sempre, come estremo rifugio, la carità.