Corriere della Sera, 4 maggio 2019
«La mia amica Thatcher»
Sono quarant’anni esatti dall’arrivo al potere di Margaret Thatcher: il 4 maggio 1979 la Lady di Ferro si insediava a Downing Street. Testimone di quei giorni era Lord Jeffrey Archer, oggi scrittore di best-seller da oltre 300 milioni di copie ma allora politico conservatore, nominato dalla stessa Thatcher vice-presidente del partito.
A quando risaliva il vostro rapporto?
«L’ho conosciuta che era ministro ombra dell’Educazione e siamo diventati amici, così come Mary, mia moglie, che insegnava a Oxford al suo stesso college. I Thatcher passavano le vacanze da noi a Cambridge. Sono stato uno dei suoi primi sostenitori per la leadership del partito. Allora era Cancelliere ombra dello Scacchiere e la sua massima ambizione era occupare quel posto nel governo, non diventare primo ministro. Divenne leader dei conservatori quasi in maniera fortuita, perché il candidato principale fu costretto al ritiro».
Thatcher leader per caso?
«Era la persona più determinata che ho mai incontrato nella mia vita, ma non realizzò che poteva diventare la leader del partito se non all’ultimo momento».
Quanto era importante per lei essere una donna? Giocò la carta femminile?
«Mai, mai. Credeva che ogni lavoro dovesse andare alla persona con le capacità giuste: se per caso era una donna, bene. Ma avrebbe disapprovato le quote elettorali».
Dopo che divenne primo ministro, quando si capì che non si era di fronte a una leader come gli altri?
«Con le Falklands. All’inizio lei non andava bene nei sondaggi: ma tutto cambiò con le Falklands, quando tutti compresero che avevamo una leader forte. E ciò diede fiducia anche a lei. Se le Falklands fossero andate male, sarebbe stata tutta un’altra storia. Non avremmo mai vista realizzata la sua agenda domestica».
La battaglia contro i minatori in sciopero fu importante per la sua agenda economica.
«Quella battaglia la rese abbastanza impopolare: e lei rimane piuttosto impopolare anche oggi. Lei divise il Paese: ma è quello che fanno i grandi leader, non i leader deboli».
Resta un personaggio divisivo.
«Certo, c’è gente che ancora non mi parla perché sanno che ero un suo amico».
Quale fu la sua maggiore realizzazione?
«Far cadere il comunismo. Mi disse che pensava che fosse la cosa più importante che aveva compiuto: che lei e Reagan avevano messo fine al comunismo».
Era davvero una Lady di ferro o aveva debolezze?
«Non debolezze. Ma ricordo di averla incontrata una volta a Downing Street e c’era in quei giorni una storia sui giornali, di una madre che aveva gettato il figlio in mare e il bambino si era aggrappato alla mamma e lei lo aveva rigettato in acqua: al meeting di quella mattina dovevamo discutere le strategie elettorali e lei non fu capace di tenere una conversazione, era incredula che una madre potesse fare ciò».
Aveva un lato tenero...
«Sì, molto umano».
Altri esempi?
«Quando suo figlio si era smarrito nel deserto, lei aveva perso l’orientamento. C’erano elicotteri e aerei che lo cercavano e lei non fu in contatto con nessuno in quei giorni».
Cosa avrebbe detto della Brexit?
«Non sarebbe mai accaduta con lei, non sarebbe mai stata parte del programma del partito. Ma oggi, se fosse viva, avrebbe accettato il risultato del referendum».
E come avrebbe trattato con l’Europa?
«La si può immaginare andare a supplicare a Bruxelles come fa Theresa May ? Avrebbe preso Juncker a borsettate e gli avrebbe detto di venire lui a Londra! Povero Juncker, se l’avesse incontrata! Avrebbe dovuto fare molte più concessioni...».
C’è una nuova Thatcher all’orizzonte?
«No. Sul piano europeo solo Angela Merkel è al suo livello. E quando guardi a loro due ti chiedi se forse le donne forti non sono meglio degli uomini forti, per ragioni inesplicabili. Ma se a Londra ci fosse una nuova Thatcher, sarebbe già a Downing Street: non staremmo qui a fare questa discussione!».
Come fu il suo addio?
«Il giorno che lasciò Downing Street eravamo lì solo in quattro ancora al suo fianco. Gli altri l’avevano tutti abbandonata. E lei non lo dimenticò mai».
E i suoi ultimi anni?
«Subito dopo le dimissioni era molto giù, dovemmo mettere soldi nel suo conto in banca, non aveva un centesimo. In un anno raccogliemmo cinque milioni che le servirono per la sua fondazione. Ma ogni volta che viaggiavi con lei avresti pensato che era ancora primo ministro. Tutti la incontravano: re, presidenti, primi ministri. Una volta l’ho portata in Giappone, dove fu accolta come una divinità: anche l’imperatore volle vederla. Alla sua morte la regina andò ai funerali: quello per lei sarebbe stato l’onore finale».