4 maggio 2019
Lo scontro Usa-Russia sul Venezuela
Rocco Cotroneo, CdS 4/5/2018
Rio de Janeiro Una lunga telefonata tra Trump e Putin, incontri ad alto livello al Pentagono, i falchi di Washington sempre più attivi e infine una voce: aerei Usa di ricognizione sarebbero stati segnalati non lontano dalla costa caraibica. Il caso Venezuela è sempre più un tema di geopolitica, mentre si guarda con attenzione all’incontro della prossima settimana tra il segretario di Stato Usa Mike Pompeo e il collega russo Sergej Lavrov. Tra i due sono volate parole grosse negli ultimi giorni: per gli americani la resistenza al potere di Maduro è ormai una questione da liquidare in ogni modo (facendo paventare in continuazione anche l’opzione militare), mentre secondo i russi soltanto accennare ad un intervento è una ingerenza inaccettabile e una provocazione.
I due presidenti si sono parlati al telefono per un’ora, ieri. «Una colloquio molto produttivo – ha detto Trump – Andare d’accordo con i russi è sempre una cosa buona, lo dico da prima che cominciasse la caccia alle streghe». Tra i temi anche Ucraina, il commercio mondiale, Corea del Nord e l’inchiesta Russiagate, con il rapporto Mueller. Il Cremlino ha fatto sapere che sul Venezuela Putin è però rimasto intransigente. Una soluzione politica della crisi è possibile, ha detto il leader russo, ma l’atteggiamento di Washington, le ingerenze negli affari di un altro Paese e i tentativi di appoggiare una fronda anti-Maduro nel regime non fanno che allontanarla. L’incontro Pompeo-Lavrov si terrà il 6 maggio nella città finlandese di Rovaniemi, in Lapponia. Anche qui Venezuela al primo posto nell’agenda, e poi Siria e Ucraina.
Il fallimento del «golpe» del 30 aprile, organizzato da Juan Guaidó e Leopoldo López, sembra aver dato ulteriore fiato ai falchi Usa. Il senatore Lindsey Graham si chiede perché mentre Russia e Cuba mandano tranquillamente truppe in Venezuela, gli Usa non hanno nemmeno avvicinato una portaerei nella regione. Al Pentagono ieri lungo vertice tra Pompeo, il consigliere per la sicurezza John Bolton e il ministro della Difesa ad interim Patrick Shanahan, con l’aggiunta dell’ammiraglio Craig Faller, capo del comando Usa per l’America del Sud. Possibile che si sia discusso, se non la pianificazione di un intervento vero e proprio in Venezuela, come muovere le prime pedine sullo scacchiere caraibico.
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Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 4/5/2019 –
Il “golpe” di Guaidó in Venezuela è una dimostrazione in vitro di come un fuoco concentrato di balle, in termini moderni fake news, può far apparire reale l’irreale e il falso. Tutti i giornali e i media internazionali ci avevano rotto i timpani facendoci intendere che in Venezuela era in atto un colpo di Stato, che Caracas era nel caos, che erano in corso combattimenti, che il presidente “usurpatore” Maduro stava per fuggire dal Paese e gettarsi nelle braccia di Putin.
Ebbene Pino Arlacchi, che non è proprio l’ultimo venuto, essendo stato fra le tante altre cose sottosegretario delle Nazioni Unite, che in quei giorni era a Caracas, quindi sul posto, ha raccontato a Salvatore Cannavò del Fatto, forse l’unico giornale che insieme al nostro governo, in questo caso a trazione Cinque Stelle, non si è fatto abbagliare, una realtà molto diversa. Ha attraversato la città e l’ha trovata tranquilla tranne che in piazza Altamira, luogo tradizionale in cui si radunano i sostenitori della destra estrema, “i guarimbas, le squadre dei bulli dei quartieri alti che assaltano i cortei popolari picchiando, bruciando e sparando”.
Sono stato in Venezuela, per motivi personali e non professionali, a metà degli anni 90 prima che Chavez prendesse il potere. Mille ricchissime famiglie di Caracas possedevano, in pratica, quasi tutta la ricchezza nazionale, il resto era desolazione, miseria, analfabetismo. Come avevo scritto in un altro pezzo (“Altro che Isis, i terroristi più pericolosi sono gli Stati Uniti”, Il Fatto, 5 marzo 2019), basato su dati forniti dal Fmi e dalla Banca Mondiale, il “chavismo” aveva lavorato ottimamente in Venezuela: le spese sociali avevano raggiunto il 70 per cento del bilancio dello Stato, il Pil pro capite era triplicato in poco più di 10 anni, la povertà era passata dal 40 al 7 per cento, la mortalità infantile dimezzata, la malnutrizione era diminuita dal 21 al 5 per cento, il coefficiente Gini di disuguaglianza sociale era sceso al livello più basso dell’America Latina, l’analfabetismo praticamente azzerato.
Alla morte di Chavez gli Stati Uniti hanno colto la palla al balzo per abbattere questo scandalo: un Paese socialista che si permetteva di migliorare invece che peggiorare. Hanno sottoposto il Venezuela a sanzioni economiche e sociali sempre più pressanti. È chiaro che in questo modo si mette facilmente in ginocchio un Paese, qualsiasi Paese. Racconta ancora Arlacchi (menomale che qualcuno d’una sinistra non comunista esiste ancora, peraltro qualcosa in questo senso si vede adesso in Spagna dove il governo socialista di Pedro Sanchez ha finalmente un programma socialista): “Le sanzioni economiche americane tagliano le medicine, il rapporto Sachs spiega molto bene che negli ultimi due anni a seguito delle sanzioni sono morte 40 mila persone in più soprattutto per la mancanza di medicine come l’insulina o i farmaci anti-Hiv, il governo ha i soldi per comprare ma le banche internazionali si rifiutano di eseguire le transazioni”.
Capite allora chi è che domina la danza? Capite che quando qualcuno parla di “poteri forti” (non è il mio caso, mi sembra un’espressione troppo vaga) non sta vaneggiando? Adesso gli americani, visto che il fantoccio Guaidó non regge più, minacciano un intervento armato in Venezuela se dobbiamo dar retta alle parole del segretario di Stato Mike Pompeo (basta guardarlo in faccia, costui, per capire di che pasta è fatto). Io non posso credere che gli americani vogliano ripetere in Venezuela gli errori, e gli orrori, che anche con la complicità di alcuni Paesi europei, Francia in testa, hanno compiuto in Serbia nel 1999, in Iraq nel 2003, in Libia nel 2011.
Domenica 12 maggio parteciperò a un convegno a Brescia in cui parlerò del “diritto dei popoli di filarsi da sé la propria storia”. Cioè del diritto all’autodeterminazione sancito peraltro solennemente a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo. Questo diritto è stato stracciato non solo nei Paesi che abbiamo nominato, ma anche nell’ex Africa Nera da cui ci giungono le migrazioni che tanto ci preoccupano o fingono di preoccuparci. L’Onu non conta più nulla, quel poco di diritto internazionale che ancora esisteva nemmeno. Alla forza del diritto abbiamo sostituito definitivamente il diritto della forza. Una concezione che sarebbe piaciuta ad Adolf Hitler.
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Paolo Manzo, il Giornale 4/5/2019
La razionalità anche ipocrita della diplomazia da un lato, la pancia del populismo dall’altro. È il bivio al quale si è fermato il Venezuela in questi giorni, uno stallo che potrebbe costare caro ad un Paese ormai allo stremo delle forze con la popolazione alla fame. Da un lato fervono le agende internazionali. Ieri durante una telefonata tra Trump e Putin oltre a questioni nucleari si è parlato anche di Venezuela mentre la settimana prossima in Finlandia è previsto un incontro tra il segretario di stato Usa Mike Pompeo e il suo collega russo Sergej Lavrov. Trump ha raccontato che «Putin non vuole essere coinvolto nella crisi venezuelana ma spera in un esito positivo». I toni rischiano comunque di rimanere accesi. Lavrov ha fatto sapere che la posizione di Mosca «rispetto ai piani Usa sul Venezuela sarà molto semplice: mobiliteremo gli Stati che, come noi, rispettano lo Statuto dell’Onu per contrastare simili intenti». Per poi aggiungere che «l’ingerenza di Washington negli affari del Venezuela è una flagrante violazione del diritto internazionale». Pompeo dal canto suo ha risposto dicendo che «è la Russia che destabilizza il Paese» e che «l’intervento di Russia e Cuba è stato destabilizzante per il Venezuela e per le relazioni bilaterali Usa-Russia». Intanto ieri si è riunito d’urgenza il gruppo di Lima, creato nel gennaio del 2017 per appoggiare la via pacifica alla democrazia nel paese. In agenda l’aggravarsi della crisi in atto in questo momento. Tra i temi affrontati quello della sicurezza di Guaidó e dell’altro leader dell’opposizione Leopoldo López, liberato martedì dai domiciliari e poi rifugiatosi nell’ambasciata spagnola. Da qui ha detto che la sua situazione «è un inferno, ma non ho paura di Maduro». Ha anche fatto sapere di aver avuto colloqui con vari membri importanti dell’establishment chavista che gli permettono di dire che Maduro «è circondato da persone nella sua cerchia più ristretta che vogliono che lasci il potere. Oggi Maduro non può fidarsi neppure di chi gli serve il caffè». Quanto ad un ipotetico intervento militare López non lo ha escluso «essendo un’alternativa legale contemplata dalla Costituzione». Il ministro spagnolo degli esteri Josep Borrell dal canto suo ha dichiarato che il suo governo «limiterà» comunque le attività politiche di López: «La Spagna non permetterà che la sua ambasciata si converta in un centro di attivismo politico». Fermo restante il fatto, come lo stesso ministro ha ribadito, che il suo paese non consegnerà López - che non ha chiesto asilo politico - al governo di Maduro, nonostante l’ordine di arresto emesso dal Tribunale Supremo venezuelano giovedì scorso. Lo stesso che ieri ha deciso di processare il vice di Guaidó, Édgar Zambrano, in relazione al tentativo di golpe di martedì scorso. Tra le accuse quella di «tradimento della patria e cospirazione». Quanto a Guaidó ha indetto per oggi manifestazioni pacifiche davanti alle caserme di tutto il paese per chiedere che i militari abbandonino il presidente Maduro che ha avuto finora nell’esercito il suo maggiore punto di forza. Intanto cominciano ad arrivare indiscrezioni sulla presunta fuga di Maduro di martedì scorso, poi abortita. Secondo il giornalista peruviano Jaime Bayly in quelle ore concitate la moglie di Maduro a bordo di un aereo inviato da Putin sarebbe andata a Punta Cana in Repubblica Dominicana, dove la coppia ha una villa, precedendo di poche ore il marito. Che però alla fine è rimasto a Caracas. Intanto il bilancio delle vittime nell’ultima settimana è salito a 5.