4 maggio 2019
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Biografia di Massimo Ranieri
Massimo Ranieri (Giovanni Calone), nato a Napoli il 3 maggio 1951 (68 anni). Cantante. Attore. Conduttore televisivo. Regista teatrale. Circa quindici milioni di dischi venduti nel mondo. «Se mia madre ha messo al mondo Giovanni Calone, mio padre ha fatto nascere Massimo Ranieri: mia madre mi ha fatto crescere, mio padre mi ha permesso di diventare l’uomo che sono. Perché lui non ha mai smesso di sognare accanto a me» • Quinto degli otto figli di una casalinga e di un operaio. «Ricordo che mio padre usciva all’alba e tornava la sera, era operaio all’Italsider. Ma sempre col sorriso, quasi con leggerezza, perché, il suo posto, lo aveva» (a Paolo Conti). «Eravamo otto figli, e mia mamma, santa donna, […] ha dovuto distribuire il suo amore su otto creature, per cui tutti contenti ma nessuno sazio» (a Michele Sciancalepore). «“Io non sono mai stato bambino”. Cosa intende? “Quando a sette anni i tuoi genitori ti buttano in strada a guadagnarti la vita… non sei più un bambino”. Cosa faceva? “Il ragazzo di bottega di una cantina, portavo il vino ai tavoli. A sette anni. E ho detto tutto”. […] Ma lei da bambino voleva fare il cantante? “No, il boxeur. Ma mio padre mi ripeteva: ‘Guaglio’, i cazzotti fanno male…’”» (Stefania Zizzari). «Ho cominciato a cantare a otto anni. E per un motivo soltanto: la paura dell’acqua». «C’è un ponte sull’acqua per chi vuol andare da via Caracciolo a Castel dell’Ovo. Quando ero ragazzino, i miei amici e miei cugini si buttavano da quel ponte a raccogliere le monetine. In sostanza, facevano le foche ammaestrate per i turisti. E io ero il focone: per richiamare l’attenzione dovevo cantare, e se non cantavo questi non guadagnavano una lira. Così due di loro mi tenevano dal ponte sospeso sull’acqua. O cantavo o mi buttavano a mare, giocando sul ricatto che io non sapevo nuotare… Insomma, un’angoscia. A nuotare davvero ho imparato solo quando avevo 43 anni». «La mia voce piaceva, raggranellavano tanti spiccioli e a me ne toccava una parte. Poi finii in un bar, e anche lì cantavo per i clienti, ma non più in alto mare. Un discografico mi notò, mi propose di incidere un disco e mi offrì un anticipo di 200 mila lire. Nessuno in famiglia aveva mai visto una cifra simile». «Sin da bambino si adatta ai lavori “di strada”: strillone, posteggiatore, cantante ai matrimoni. Il primo nome d’arte è Gianni Rock, con cui a soli tredici anni compie una tournée in America con Sergio Bruni. Poi diventa Massimo Ranieri, cognome scelto in omaggio al Principe di Monaco. Il pubblico italiano si accorge di lui sin dall’esordio televisivo nel 1966 a Scala reale (la Canzonissima di quell’anno)» (Enrico Deregibus e Beppe Montresor). «Avevo 15 anni. Arrivai a Roma senza i calzini perché non ce li avevo, un vestito nero di gabardine racimolato chissà da chi che mi andava stretto e aveva le maniche troppo corte: così conciato, secco secco com’ero, sembravo uno stecchino. […] Ma ero minorenne, e al Teatro delle Vittorie non potevano farmi entrare. Allora la mia casa discografica falsificò la carta di identità, scrivendo “18 anni”». «Ma è nel 1967, con Pietà per chi ti ama, che conquista classifiche e cuori femminili vincendo il Cantagiro nel “girone B”, quello riservato ai giovani. Da questo momento infila una serie di successi, scalzando Gianni Morandi dal trono della popolarità italiana» (Deregibus e Montresor). «A 18 anni, […] ha vinto il Cantagiro con Rose rosse. A 19, trionfò a Canzonissima con Vent’anni. “Ricordo ogni istante di quella serata. Ero seduto vicino a Claudio Villa e Gianni Morandi, poi c’erano Mino Reitano, Rosanna Fratello, Iva Zanicchi… Canzonissima era la trasmissione più importante d’Italia: c’erano 20 milioni di persone a seguirla. Quando Corrado mi annunciò come vincitore e Raffaella Carrà venne a prendermi in platea, appena salito sul palco ero stordito dalla gioia, dall’incredulità”. Tra tutti i suoi colleghi, Claudio Villa fu quello che applaudì con più calore… “Claudio Villa mi voleva bene. Lui era il ‘reuccio’ e ripeteva spesso che l’unico suo erede ero io. Una volta a un Cantagiro avevo appena finito di cantare, lui uscì dai camerini dietro al palco, prese il microfono e disse: ‘È lui il più forte, è lui che deve vincere, lo scugnizzo’. Mi chiamava così”. Eravate amici? “Lo eravamo in queste occasioni, ma poi ognuno aveva la sua vita. Come succede sempre in questo mestiere”» (Zizzari). «Dopo due Festival di Sanremo, la grande affermazione arriva con Rose rosse, che si aggiudica il Cantagiro ’69 tra i “Big”, e poi con Vent’anni ed Erba di casa mia (che vincono Canzonissima nel ’71 e nel ’73, davanti a Morandi). I brani portano le firme di Enrico Polito, Totò Savio e Giancarlo Bigazzi. Non sono certo capolavori, ma l’interpretazione nitida, forte ed espressiva li rende comunque di grande impatto. Intanto nel ’72 Ranieri licenzia una prima raccolta live di classici napoletani (’O surdato ’nnammurato): a suggerirgli il recupero delle radici canore partenopee è Anna Magnani, conosciuta sul set del film La sciantosa, a cui partecipa» (Deregibus e Montresor). «Fu con lei che cantai in napoletano per la prima volta. Lo confesso: ’O surdato ’nnammurato non la conoscevo. Finché una volta la Magnani mi chiamò nella sua roulotte, aveva una chitarra: “A ragazzi’, la conosci, ’sta canzone?”. E cominciò a cantare Reginella, accompagnandosi da sola. Io non avevo mai sentito neppure quella: “No, signora, non la conosco”, risposi con la timidezza che non mi abbandonava mai quando ero di fronte a lei. “E che cazzo di napoletano sei!”, mi folgorò». Determinante, però, sarebbe stato anche un altro grande protagonista del cinema di quegli anni. «Sembra incredibile, ma a spingermi a cantare in napoletano fu Vittorio De Sica: venne in camerino, ero giovane, allora cantavo in italiano, fu un concerto orrendo e quando lo vidi mi tremavano le gambe. Lui mi abbracciò, mi strinse la testa tra le mani e disse: “Figlio mio, ma come, tu che sei napoletano, e con la voce che ti ritrovi…”. Non me lo sono mai dimenticato» (a Gino Castaldo). «Dopo il grande successo popolare di Erba di casa mia, Ranieri vuol crescere, cambiare: per quasi quindici anni privilegia la carriera di attore, avviata con grande riscontro critico e di pubblico come protagonista del film Metello di Mauro Bolognini» (Deregibus e Montresor). «“Mi diceva: ‘Stai tranquillo, la battuta pronunciala in napoletano… traduci le parole. Non ti preoccupare, è la tua espressione che mi interessa’. Figuriamoci: io, un napoletano verace che interpretava un toscanaccio. Se non ci fosse stato Bolognini…”. Massimo Ranieri aveva 18 anni quando, nel ’70, iniziò a girare Metello; il regista lo aveva conosciuto a Catania due anni prima: lui faceva il Cantagiro, Bolognini era sul set di Un bellissimo novembre con Gina Lollobrigida. “Mi rivide in televisione e mi fece cercare per tutt’Italia”, continua Ranieri. “Aveva deciso che la mia faccia era quella di Metello. Gli volevano imporre Belmondo, l’intellighenzia di allora era contraria ad un giovincello, per di più cantante, ma Bolognini mi rassicurava: ‘Tanto il film lo fai tu’. Rifiutai Rosse rosse: mi avrebbero dato 20 milioni, contro i due e mezzo che presi per il film da Pratolini. All’inizio pensavo che Metello fosse un antico romano. Ero troppo giovane per capire l’importanza di quello che mi stava accadendo, ma il mio destino di interprete è cominciato grazie a Bolognini. Poi abbiamo fatto Bubù e Imputazione di omicidio per uno studente, film che lui non amava e che fu costretto a girare per esigenze di produzione”, sottolinea Ranieri. “Fu l’unica volta in cui si arrabbiò anche con me. Era inquieto, insoddisfatto”» (Alessandra Rota). «In pochi anni si dimostra attore valente e versatile, ma il cinema – contrariamente al teatro e alla televisione, dove la sua carriera decolla – gli offre poche buone occasioni, e a poco a poco se ne allontana. È un giovane malavitoso nel folcloristico Con la rabbia agli occhi (1976) di A. Margheriti e omosessuale perseguitato dai fascisti nel divertente La patata bollente (1979) di Steno» (Gianni Canova). Nel 1981, «Giorgio Strehler mi scelse per L’anima buona di Sezuan. Al primo provino mi chiese di mimare un aeroplano. Mimare? Io? Restai pietrificato. La moglie, Andrea Jonasson, mi sussurrò: “Non aver paura di Giorgio”. Ma lui sbraitava, perché sapeva che avevo già fatto teatro con De Lullo, Patroni Griffi e Valli, pensava venissi dall’accademia. “E quello sarebbe un aeroplano?”. Mi impappinavo sulle battute di Brecht. E lui: “Forza, perdio! Brecht si può tagliare. E, se mi incazzo, taglio pure Shakespeare e Molière!”, che erano i suoi mostri sacri. Strehler è stato il mio maestro». «Qualche malalingua aveva detto a Eduardo che non volevo lavorare con lui. Ero a Milano, provavo Brecht con Strehler. A un certo punto fece capolino quel grande uomo di teatro di Franz De Biase. “Guaglio’, sta arrivando”. Entrò De Filippo e mi fissò: “I’ vulisse sape’ pecché nun vulite fatica’ cu’ mme!”. Io, spaurito e sconcertato: “No, che dite! Non è ’o vero. È una strunzata!”. E lui: “Ah, vabbuò. Statte bbuo’”. E se ne andò. Ancora oggi non so chi sia stato a soffiargli nell’orecchio quella menzogna». «La molteplice attività in cinema, teatro e televisione (anche come conduttore) sarà buon viatico anche nel suo approccio interpretativo con la canzone. La produzione discografica continua con lp come Album di famiglia (con Il nostro concerto di Bindi) e Per una donna, e con diversi altri lavori sulla canzone napoletana come Napulammore (che ha buoni riscontri di vendite) e Meditazione (arrangiato da Deodato). Ma per un perentorio ritorno alla canzone bisognerà attendere il 1988, quando a Sanremo trionfa con Perdere l’amore di Giampiero Artegiani e Marcello Marrocchi. Meno significative altre presenze sanremesi negli anni seguenti, così come gli album del periodo. Nel 1999 è protagonista del musical Hollywood – Ritratto di un divo, con cui prosegue una collaborazione per le musiche con Gianni Togni. Sempre più eclettico nel dividersi tra canzone e recitazione, Ranieri avvia nel terzo millennio un nuovo approccio alla tradizione napoletana, asciugata dalla retorica e colorata da una strumentazione anche etnica, nei brillanti Oggi o dimane, Nun è acqua e Accussì grande, portati nei teatri di tutta Italia. Da qui Ranieri innesta davvero la marcia della qualità anche nella canzone. Presenza determinante è quella, come produttore, di Mauro Pagani, che cura anche gli arrangiamenti della trilogia con Mauro Di Domenico. L’esperienza è comunque frutto del percorso […] di Ranieri» (Deregibus e Montresor). La collaborazione con Pagani è proseguita anche negli anni successivi, portando alla realizzazione di Malia (2015) e Malia parte seconda (2016), due album in cui Ranieri reinterpreta in chiave jazz alcune tra le più celebri canzoni napoletane del secondo dopoguerra, da Tu vuò fà l’americano a ’O sarracino, da Anema e core a Tammuriata nera, da Strada ’nfosa a Luna rossa. «Ero molto eccitato dall’idea di un lavoro nuovo e diverso da tutto ciò che avevo fatto fino ad allora. Ero consapevole che con esso si sarebbe aperta una nuova strada, che mi avrebbe portato nella Napoli degli anni Cinquanta. Un periodo in cui l’influenza degli americani, giunti alla fine della guerra, ebbe un peso notevole nella cultura musicale della mia città. È stato come scoprire un mondo nuovo, a me completamente sconosciuto. Non posso nascondere che nei miei ascolti giovanili ci sono stati grandi artisti jazz come Miles Davis e John Coltrane, ma non riuscivo a “entrare”. Oggi, però, li ho riscoperti, e ho compreso con maggiore convinzione la loro arte». «È l’inconfondibile Napoli “caprese”, che diventò in un baleno attraente, seducente, prestigiosa e sexy come una stella del cinema. Una Napoli che cantava e incantava. E che è diventata una immortale malia, come suggerisce il titolo del progetto che ha conquistato anche la platea di Umbria Jazz. “Adesso posso dire che ci sono stato, pensi: Rose rosse a Umbria Jazz. Ho saltato più in alto di Bubka. Le emozioni sono il sale della vita”, commenta divertito» (Giuseppe Attardi). Tuttora attivissimo, negli ultimi anni Ranieri ha continuato a recitare, in teatro (da ultimo, ne Il gabbiano (à ma mère), libera rivisitazione del dramma di Čechov, con l’inserimento di alcune canzoni francesi) come al cinema (nei panni dell’attore Michelangelo Fracanzani ne L’ultimo Pulcinella di Maurizio Scaparro, in quelli di Pier Paolo Pasolini ne La macchinazione di David Grieco e in quelli di un inquietante Riccardo III shakespeariano in Riccardo va all’inferno di Roberta Torre) e in televisione (su Rai Uno, tra l’autunno 2010 e la primavera 2012, ha interpretato quattro drammi di Eduardo De Filippo tradotti in italiano: Filumena Marturano, Napoli milionaria, Questi fantasmi e Sabato, domenica e lunedì), a condurre varietà televisivi (Sogno e son desto, su Rai Uno per tre stagioni, dal 2014 al 2016) e a girare l’Italia e il mondo con lunghe, seguitissime tournée, tra cui Sogno e son desto 400 e Malia napoletana, ancora in corso • «Attore, cantante, conduttore. Chi è Massimo Ranieri? “Lei si aspetta che io le dica ‘cantante’?”. Sinceramente, sì… “Dovrebbe essere così. Poi, però, quando sono lì che rifletto la notte con la testa sul cuscino, penso che, se non ci fosse l’attore, in fondo non ci sarebbe nemmeno il cantante. Canto grazie al fatto che so recitare, grazie a grandi maestri come Patroni Griffi, Strehler, Garinei, De Sica”» (Simona Voglino Levy). «Ruberò la definizione al grande Totò. Io sono un operaio dello spettacolo. Resto chi ero, il ragazzino Gianni Calone che va a lavorare come cameriere al caffè e intanto canta per i clienti. Era già un doppio lavoro. E oggi il cantante Ranieri ha bisogno dell’attore, e l’attore ha bisogno di quella voce. Ringrazio il Padreterno per questi doni, per questo li sfrutto…» • «Oltre se stesso, chi pensa di dover ringraziare per una carriera così ricca? “Napoli, che mi ha dato i natali”» (Simona Antonucci). «Per me la napoletanità è tutto ciò che è viscere, è la cultura napoletana e sono i grandi uomini napoletani che l’hanno prodotta: penso a Peppino [De Filippo – ndr], a Giuseppe Marotta, Roberto De Simone, Salvatore Di Giacomo, Enzo Moscato, per citarne alcuni. E ho detto tutto. Il napoletanismo è l’esatto opposto. Amo la mia città anche se da anni ormai vivo in ogni parte del mondo: sono partito molto tempo fa per costruire la mia carriera, per maturare e per crescere. Ma adesso non vorrei che i giovani l’abbandonassero, vorrei che restassero e provassero a "ricostruirla". Torno spesso nella mia città, per me è come il primo amore: impossibile dimenticarlo, impossibile restarne lontani». «In qualsiasi momento della mia giornata penso in napoletano. Penso che questa affermazione possa riassumere quanto io mi senta legato alla mia città. Napoli è una città che dà e ha dato tanto a noi artisti, come a tutti i suoi figli: per noi è linfa vitale, è fonte di ispirazione» (ad Angela Iantosca) • Celibe. Una figlia, Cristiana, nata nel 1971 dalla relazione con Franca Sebastiani (1949-2015) e riconosciuta solo nel 1997. Il 19 gennaio 2007, nel corso della sua trasmissione di Rai Uno Tutte donne tranne me, la presentò al pubblico. «Il racconto, davanti alle telecamere: “Recito, ballo, tutte cose che amo. Ma facendo tutte queste cose meravigliose ne ho persa una molto importante. Quando avevo 19 anni, dopo una notte d’amore nacque una bambina che si chiama Cristiana ed è mia figlia”. Quindi ha chiamato la ragazza, che era seduta in platea, per farla stare in scena accanto a sé. La ragazza nacque da una relazione con Franca Sebastiani ed è stata riconosciuta solo pochi anni fa. Si erano parlati una sola volta, sedici anni fa, per telefono, ma non si erano mai incontrati. Massimo Ranieri […] racconta ancora che i suoi genitori gli consigliarono subito di non abbandonare la bimba appena venuta alla luce, ma che altre persone lo “hanno trascinato via da questa storia”: “Mi dicevano che era un danno alla mia immagine. Una parola che mi ha sempre fatto schifo. L’unico alibi che ho è che ero giovanissimo e inesperto”. Ranieri ha deciso questo incontro all’improvviso, ha chiamato la figlia con naturalezza, nonostante il lungo silenzio, l’ha invitata in trasmissione ma non le ha detto quale sorpresa le avesse preparato. Per lei ha cantato La cura di Franco Battiato, tenendola al suo fianco. “È come se il Signore avesse toccato le corde del mio cuore e della mia anima. Non ci sono parole per descrivere questa emozione”, ha detto Cristiana. […] “È l’inizio di una nuova vita”, ha detto Ranieri alla figlia, lontano dalle telecamere» (Ernesto Assante). «Com’è tra voi due, dopo gli anni difficili legati a un faticoso riconoscimento? “Adesso ho un ottimo rapporto con lei, ci sentiamo sempre: ne sono felice. Ora ho anche un nipote. Che si chiama, guarda caso, Massimo”» (Conti) • «Le mie donne, le ho tradite tutte. Nessuna esclusa. Le ho tradite con voi: il mio pubblico. Quel maledetto binario, l’amore da una parte e il lavoro dall’altra, a un certo punto si è sempre divaricato, e la mia vita sentimentale, fino a oggi, è puntualmente deragliata» • «Ho sempre pensato che un uomo senza fede sia perso, senza futuro. L’uomo ha bisogno della spiritualità. Personalmente, poi, sono molto religioso. Il Signore è sempre stato una certezza nel mio percorso umano e artistico. Di nuovo grazie a Dio se ho incontrato delle persone straordinarie che mi hanno fatto del bene. Lui con la sua mano mi ha sempre accompagnato, protetto, guidato» (a Giulio Serri) • A lungo sostenitore di Rifondazione comunista • «Poiché da piccolo non ho mai avuto giocattoli, da grande, lo confesso, non ho resistito alla tentazione di concedermi il mio gioco preferito. Le automobili. Anzi, l’automobile: la Porsche. Ne ho avute un bel po’, ne ho collezionate di tutte le annate, come gli amanti del vino buono. C’è stato un momento in cui avevo il garage pieno» • «Il mio lusso, la sera, è gustarmi due dita di whisky, con un po’ di ghiaccio perché il sapore è troppo forte. Un altro lusso è fare sport, tenermi in forma, una corsetta anche quando sono in tournée» • «Il volto è divertente, la simpatia è quella di un monello, cresciuto ma mai del tutto addomesticato, eppure le pieghe del viso stanno scavando un´espressione che a tratti ricorda quella di Eduardo. Trasuda forza, allegria, ma sotto sotto si avverte il demone della continua insoddisfazione. La voglia di andare sempre avanti, di vivere come se non ci si dovesse mai fermare a raccogliere, piuttosto salire, scalare, conquistare una vetta sempre più alta» (Castaldo) • «L’ultimo, straordinario erede di una tradizione nobile di grandi interpreti della melodia» (Felice Liperi). «Grande mattatore, figura pressoché unica nella canzone italiana, paragonabile forse solo a quella di Domenico Modugno, non a caso da lui più volte omaggiato. La definizione di “cantattore” appare giustificata. […] Ranieri […] con Modugno condivide un’altra rara qualità: un naturale senso della misura, che lo porta a evitare banalità e cattivo gusto anche nelle canzoni non eccelse» (Deregibus e Montresor) • «Mia madre era di un pezzo solo, segnata, scolpita, di una testa sola, di un’anima sola, di un cuore solo. Mammà non voleva che io cantassi… […] Come mamma e come donna mi avrebbe voluto vedere crescere ad una scrivania, con un posto sicuro. Poi, con il tempo, ha accettato il mio lavoro. Sicuramente ho avuto la fortuna di fare un mestiere privilegiato rispetto a quello di mio padre, che si alzava alle quattro del mattino per andare a fare l’operaio». «La vita è stata generosa con me. Ho avuto il privilegio di vivere un periodo meraviglioso. Visconti, Zeffirelli, Patroni Griffi, Garinei e Giovannini, Magnani, Strehler, Joséphine Baker. Per non parlare degli attori straordinari, da Gassman a Sordi fino a Manfredi, per dirne solo alcuni. Personaggi immensi. In occasione del David di Donatello che vinsi per Metello nel 1970, Franco Zeffirelli organizzò una visione privata del film a casa sua, sulla via Appia, per far conoscere quel “giovane talento” che ero io. Ricordo la casa piena di personaggi famosi: la festa era per me, ma io guardavo ammirato tutti gli altri». «Ha delle amicizie tra i colleghi? “Gianni Togni. Abbiamo lavorato insieme vent’anni fa e siamo rimasti amici”. E la rivalità con Gianni Morandi? “L’avete inventata voi giornalisti. Come quella tra Rivera e Mazzola o tra Villa e Modugno. Gianni vive a Bologna, io a Roma: non ci frequentiamo. C’è stima, ma non siamo mai diventati amici. Però ci siamo divertiti ai tempi di Canzonissima. Il Teatro delle Vittorie era la nostra casa, eravamo lì da ottobre fino a gennaio e per tre giorni a settimana si stava insieme: prove, controprove, e poi la serata in diretta. Facevamo ipotesi su chi avrebbe vinto, scherzavamo. E con Gianni giocavamo a scopa nei camerini”. Quale canzone preferisce nel suo repertorio? “Vent’anni è quella che tuttora mi emoziona di più. ‘Nasce così la vita mia… come comincia una poesia’. […] All’epoca, a 19 anni, la cantavo ma non la capivo fino in fondo, ero troppo giovane. Invece ha una poesia, una leggerezza, una tenerezza uniche, e racchiude quello che una mamma si augura per un figlio. Era un momento storico bello, l’Italia ancora cresceva giorno dopo giorno, c’era un entusiasmo incredibile”. E quella che ha cantato più volte? “Rose rosse. Senza dubbio. Se a un mio concerto non canto Rose rosse, parte la protesta!”. Lei sa camminare sul filo, restare in equilibrio sulla palla, sa fare il giocoliere, balla il tip tap, recita, canta, tira di scherma, sa boxare… C’è qualcosa che nella vita non è riuscito a imparare? “Sono rimasto ragazzino dentro e sono sempre curioso di scoprire cose nuove. C’è una cosa che ancora non sono riuscito a fare neanche ai tempi della commedia musicale Barnum e dei miei esercizi circensi: andare sul monociclo. Ma ci riuscirò”» (Zizzari). «Io sono in perenne ricerca, non mi fermo mai perché questo è un mestiere in cui non puoi fermarti, è un lavoro molto duro per certi aspetti, che non puoi fare se non lo senti sotto la tua pelle: è difficile da sopportare, e se non avessi la fede non ce la potrei fare. La fede in Dio, nelle persone che ti hanno amato e che sai che ti proteggono: sento la loro mano sulla mia testa. Io continuo a dire che la mia sicurezza, la mia forza è l’amore e gli insegnamenti ricevuti nel mio passato, non il mio futuro; il futuro è incerto, il passato, le mie radici sono la mia luce».