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 2019  maggio 03 Venerdì calendario

Messi 600

Si possono riassumere una carriera, 15 anni di partite, 600 gol e 99mila espressioni di fede in tre secondi? Sì, con un gesto di Leo Messi che in quel tempo non racconta una parabola, come vorrebbero i suoi idolatri, ma ne diventa parte, inserendo se stesso in una curva. In quei tre secondi, dal minuto 81 e 33 all’81 e 36, c’è tutto: basta guardare.
Secondo numero uno. La palla è sul punto di battuta. Il punteggio dell’incontro è un immeritato 2-0 per il Barcellona, che il Liverpool ha fin lì surclassato per tattica e veemenza. Nel momento di maggior dominio ha però incassato il secondo gol, proprio da Messi, che incarna l’istinto della controtendenza. Una rete che viene impropriamente definita “impossibile da sbagliare”, basti infatti vedere come poi ci riusciranno, in circostanze analoghe, prima Salah quindi Dembélé. Nel cervello di Messi si è azionato il contagol, ha girato le cifre componendo 599 e ora ha disegnato il bersaglio 600, che non è più un numero, ma il volto di Cristiano Ronaldo. Il duello può finire solo per morte o esaurimento. O forse è già finito, se mai c’è stato. Niente è più al suo posto, nemmeno la regola “Nel dubbio, basta pensare il contrario di Balotelli”, che sta invece per twittare “c’è solo un fenomeno”.
L’unico guarda la palla; il resto, barriera e porta, è irrilevante. Non vede, sente. E con lui 99mila persone. Sono accorse al Camp Nou come fanno da 15 anni, con diligenza, entusiasmo e fede. Molti di loro hanno visto i più grandi campioni su quel prato, ma nessuno come lui. Per gli altri (Maradona, Cruyff, Ronaldinho) Barcellona è stata una stagione (primavera o autunno che fosse), per Messi è la vita intera. Non ha mai avuto un’altra maglia e mai l’avrà. La 10 blaugrana è la sua pelle e molto di più: è la vera icona contemporanea. Oggi Andy Warhol dipingerebbe quella e non la bottiglia di Coca Cola. La portano in versione taroccata i bambini che inseguono un pallone nei campi profughi. La ricevono in dono i disabili. È come avesse il potere di trasformare il destino, perché l’ha fatto con lui, che era un ragazzino troppo gracile per giocare a calcio e indossandola è diventato il migliore al mondo nel farlo. Che il suo potere vada oltre l’uomo a cui è cucita addosso lo dimostra il fatto che con la 10 albiceleste dell’Argentina a Messi le stesse magie non riescono mai.
Con questa, sempre e la gente lo sa. Quando lui arretra per calciare, i 99mila non trattengono il fiato, non invocano: aspettano. Quel che Edmondo Berselli scriveva del pubblico di un Bologna-Cagliari prima di un autogol di Comunardo Niccolai («consapevolezza arcana, solidificarsi delle attese collettive, sospiro di sollievo della Storia») vale, all’ennesima potenza, per questi spalti che di Messi hanno visto l’opera come un film dalle infinite repliche. Non chiudono gli occhi, sanno che si perderebbero quel che accadrà nei prossimi istanti. È una sensazione ineguagliabile stare lì e sentirsi parte di una collettività che non scongiura l’avvenire, ma giura che si compirà nel migliore dei modi possibili. Tra poco.
Secondo numero due. Messi parte. Ha lo sguardo accigliato di un bambino impegnato a fare la cosa che sa, stupendosi ogni volta dell’effetto meraviglia. Prima ancora del piede, conta il corpo. Si predispone a entrare nella linea che condurrà la palla alla destinazione voluta. Nel momento in cui calcia, Messi non disegna una traiettoria, ne è parte: la linea dell’improbabile comincia da lui.
Sono 25 metri circa di distanza dal bersaglio. Lo scettico telecronista Sky annuncia incredulo: «Prova lo stesso!». Lo sentissero i 99 mila replicherebbero: «Prova?». Lo spettacolo è già andato in scena 599 volte, con la stessa scioltezza, si trattasse di spingere in porta da due metri o trovare la cruna dell’ago da 25. Del Piero legava bandane accanto al sette della porta per esercitarsi nel campo ormai deserto. Pirlo curava le unghie delle dita preposte alla “maledetta”. Maradona lasciava che fosse la palla a trovare la sua strada. Messi tira prima di tirare. Cerca un ingresso nascosto e ci entra per primo, in avanscoperta. Ribalta la definizione di Ernest Hemingway secondo cui: «Il coraggio è grazia sotto pressione». Per lui la grazia è coraggio sotto pressione: fa la cosa più bella nel momento più difficile, nei minuti di recupero del Clásico o nella finale anticipata di Champions contro l’unica squadra che al Camp Nou non aveva perduto mai. Finora. Fino a un attimo fa.
Secondo numero tre. La palla si stacca e va dove deve andare. Non dove vuole o può: dove deve, per obbedienza alla volontà che le imprime la spinta. Era impossibile? No, o non sarebbe accaduto. Non c’era uno spiraglio da trovare, troppo facile: occorreva uscire per entrare. Poi diranno (Capello e Del Piero) che ha sbagliato Alisson, il portiere del Liverpool: avrebbe dovuto mettere in barriera un uomo in più. Anni fa uno scienziato di nome Ronald Ranvaud decise di studiare il rigore perfetto e lo individuò in uno tirato da Mihajlovic con la maglia della Lazio. Minuti prima il portiere avversario si era disteso e gliel’aveva parato. Ebbe una seconda opportunità e calciò nella stessa direzione, più forte, dando più velocità alla palla, come fosse una cosa facilmente regolabile. Se Alisson avesse messo un uomo in più in barriera, Messi si sarebbe arcuato un po’ di più, avrebbe mandato la palla un po’ più lontano, ampliando la curva. Ci sono studi di Stephen Hawking su rigori e punizioni: sono più efficaci i mancini, quelli con il rosso nella maglia, quelli chiamati Leo Messi. Né critica né scienza, per favore: fare come Jürgen Klopp, l’allenatore avversario, che semplicemente incassa e sorride, con denti bianchissimi. Era comunque un privilegio, grazie (i tifosi del Liverpool, invece, hanno lanciato una petizione per farlo squalificare: nello scontro con Fabinho gli ha rifilato un colpo, c’è un video che lo accusa).
Zero a tre, 600 a 600, palla al centro. E ora vediamo: non come va a finire, ma come la fa finire.