la Repubblica, 3 maggio 2019
Huawei, è lo Stato il vero padrone
In una stanzetta del mega campus di Shenzhen, sotto una teca di vetro, Huawei conserva una decina di volumi rilegati in blu. All’interno ci sono nomi e cognomi di tutti i dipendenti, in totale sono 96.768, che controllano azioni della società. Per il colosso tecnologico cinese quei mitici libroni sono una prova inconfutabile. Huawei è di proprietà dei lavoratori. Quindi non è in alcun modo controllata dallo Stato cinese, cioè dal Partito comunista. E a differenza di quanto dicono gli Stati Uniti i suoi apparecchi per le reti telefoniche non sono un cavallo di Troia degli 007 di Xi Jinping.
Ma se questo è il tentativo di tranquillizzare il mondo, a Shenzhen dovranno sforzarsi di più. Di chi è davvero Huawei? Con la domanda da un milione di router si sono misurati anche due ricercatori, Christopher Balding e Donald Clarke, uscendone con un verdetto assai più preoccupante. Dalle poche informazioni pubbliche disponibili risulta che Huawei è controllata al 100% dalla scatola Huawei Investment & Holding. Che a sua volta è posseduta all’1% e spiccioli dal fondatore Ren Zhengfei, 74enne ex ingegnere dell’esercito, e per il restante 98 da un’entità chiamata “comitato sindacale”. In un Paese dove il sindacato è cosa di Partito, questo fa ipotizzare che sia lo Stato a comandare. Di certo, le azioni in mano ai dipendenti non garantiscono il controllo, al massimo una fettina degli utili.
Visto il momento, Huawei ha pensato bene di chiarire subito. Il problema è che in un’ora e mezza di conferenza stampa le acque si sono solo intorbidite. Il famoso comitato sindacale è davvero titolare delle azioni, perché è una delle poche entità che in Cina hanno questa facoltà. Ma non si occupa di affari, dicono, solo di organizzare tornei di basket e ping-pong. Invece le “azioni fantasma” dei lavoratori danno loro diritto a eleggere l’assemblea dei rappresentanti, che a sua volta nomina i componenti del board.
Anche se i titoli non sono proprio del lavoratore: quando lascia, tornano all’azienda. Chiaro? No. E non lo diventerà, visto che a differenza di altre aziende cinesi Huawei non vuole quotarsi, passo che richiederebbe di scoperchiare le sue scatole cinesi. Anzi, ha sempre citato la libertà dai listini come uno dei segreti del successo. Il fatto è che adesso l’opacità della struttura (e del capitalismo di Stato cinese) rischia di diventare zavorra. Vero, Huawei sta vincendo la battaglia industrial-diplomatica contro Washington.
La prova di spionaggio non c’è, mentre c’è il primato nella tecnologia 5G: i governi europei non vogliono bandirla. La battaglia però non è finita. Tre giorni fa Bloomberg ha rivelato che Vodafone scovò una "backdoor”, una porta sul retro nei dispositivi distribuiti in Italia tra il 2009 e il 2011, poi chiusa.Mentre ieri la premier inglese Theresa May ha silurato il ministro della Difesa Williamson, accusato di aver spifferato alla stampa che i cinesi sarebbero stati ammessi nella rete 5G di Sua Maestà. Alle cancellerie d’Europa, boss Ren in persona promette trasparenza. Ma dentro le scatole di Shenzhen non è facile vederci chiaro.