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 2019  maggio 03 Venerdì calendario

Bruno Vespa racconta i suoi 50 anni in Rai

Direttore Vespa, per lei il 2019 è il cinquantesimo anno in Rai.
«Sono stato fortunato. Ho vinto il concorso 1968-69: fui primo di 23 ammessi su un migliaio. Non immaginavo di farcela, mentre mio padre ci credeva. Scommettemmo un televisore a colori poi, grazie a Ugo La Malfa che per una politica pauperistica era contrario, la tv a colori arrivò solo nel ’77, e mio padre era morto. La regalai a mia madre». 
Si ricorda il primo servizio?
«Quella era una Rai in cui si facevano telecronache del 2 giugno, pezzi su Salvo D’Aquisto. Il mio primo servizio fu sulla regata storica delle Repubbliche marinare, figuriamoci. Era giugno, ma già a dicembre ero su Piazza Fontana».
Come no. Lei annunciò l’arresto del colpevole, Pietro Valpreda, che poi fu assolto.
«Me ne pentii. Ma, se si va a vedere i giornali dell’epoca, era una gara linguistica a chi trovava il termine più brutale: mostro, boia. Del resto nessuno dubitava della colpevolezza di Valpreda, e per dire che il processo mediatico non è un’invenzione di oggi».
Lei per esempio fa processi in tv, coi famosi plastici. Ma ce n’è davvero bisogno?
«Non capisco: se i giornali pubblicano piantine, scene del delitto, indagano va bene. Se lo faccio io è tv spettacolo».
Forse non dovrebbe farlo nessuno.
«Questo è un altro discorso. Ma la copertura mediatica dei processi è arte antica».
Prima di piazza Fontana ci fu lo sbarco sulla Luna, raccontato nel suo ultimo libro.
«Una notte straordinaria, con la diretta di Tito Stagno e Andrea Barbato, un evento che andò oltre la cronaca, interpellava l’umanità, il senso della sua presenza nel cosmo, infatti c’erano ospiti di ogni tipo, dal regista Michelangelo Antonioni al poeta Alfonso Gatto».
È il servizio che l’ha segnata di più?
«No. È stato l’evento più importante di tutta la seconda metà del Novecento, ma lì facevo il portatore d’acqua, com’era giusto. Dal punto di vista professionale mi ha segnato il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. La mattina del rapimento corsi in Rai e dovetti tenere la diretta per ore, alcune decine di minuti sulla base di due righe dell’Ansa. Sono rimasto blindato in Rai per cinquantacinque giorni. Due volte sono andato al cinema e dovevo segnalare alle maschere il posto dov’ero seduto, in caso di emergenza. Poi feci anche la diretta subito dopo il ritrovamento del cadavere».
Lì la si vede sconvolto.
«Un po’ sì, ma ero soprattutto trafelato perché ero corso su per le scale a dare la notizia prima che partisse la pubblicità. Però, al di là del caso Moro, l’incontro fondamentale è con Wojtyla».
Le telefonò in diretta.
«Avevamo un rapporto antico. L’ho conosciuto un anno prima che diventasse Papa: era il ’77 e volevo intervistare il cardinale Wyszynski, primate di Polonia, ma fu impossibile. Mi indicarono il cardinale Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Cenammo a Roma, c’era Pierluigi Varvesi, allora giornalista Rai e oggi laico consacrato a Gesù. Varvesi diceva che i preti non dovevano insegnare, e Wojtyla si infuriò, dava i pugni sul tavolo: venite a vedere come si vive in Polonia con la dittatura comunista, diceva. Nella foga, bevve mezza bottiglia di Chivas. Poi andai a intervistarlo a Cracovia e ne fui così impressionato che gli dissi se non fosse ora di un Papa polacco. Forse è presto, mi rispose. In effetti servì l’intermezzo di Papa Luciani, il primo a parlare di sé in prima persona, senza usare il plurale maiestatis. Giovanni Paolo I fu indispensabile perché arrivasse Giovanni Paolo II».
Molti pensano che la Rai, quella del servizio pubblico, morì a Vermicino col piccolo Alfredino Rampi.
«Non lo so, ma ero totalmente contrario a quella interminabile diretta. Pregai il direttore Emilio Fede di sospenderla perché mi parevano tutti impegnati a lucrare sulla pelle di un povero bimbo. Pure il presidente Pertini, che fu un vero eroe della Resistenza, uno dei pochi che l’ha fatta davvero, ma a Vermicino voleva essere il primo ad abbracciare Alfredino, che invece morì. Pertini non amava i bambini, amava le telecamere. La diretta andò avanti e io me ne tirai fuori, tornai a casa».
Alla fine della Prima repubblica lei sembrava finito, invece doveva ancora cominciare. Porta a Porta è del ’96.
«Nel ’93 fui messo in punizione perché ero il giornalista del vecchio regime. Pensate che, quando ci fu l’attentato a San Giovanni in Laterano, ci andai e mi imbattei in Papa Wojtyla col presidente Scalfaro e il capo della polizia Parisi. Un colpo notevole. Albino Longhi, direttore del Tg1, disse che il servizio poteva andare in onda purché non si vedesse la mia faccia. Ma, per dire come vanno le cose, poco dopo riuscii a intervistare Silvio Berlusconi, che non conoscevo, e bastò perché all’indomani fossi di nuovo in prima serata».
È un piccolo ed esaustivo trattato sulla Rai. Però fu lei a dire che la Dc era il suo editore di riferimento.
«Lo rivendico. Ci sono cose che non si possono dire, ma sono vere. La Rai è controllata dal Parlamento dentro cui c’è una maggioranza che esprime un governo. Il resto è ipocrisia. Allora poi al Tg2 c’era Alberto La Volpe e Sandro Curzi al Tg3, il primo militante del Psi il secondo del Pci, mentre io non ho mai fatto una riunione di partito».
Sono intrusivi i politici?
«Lo so che non mi crede nessuno, ma poco o niente. Ci provavano nella Prima repubblica solo quelli dei piccoli partiti perché hanno bisogno di spazio, i partiti grandi conoscevano la nostra correttezza e lo spazio dovuto».
Più che la questione dell’editore di riferimento, colpisce la necessità della Rai, e anche sua, di spettacolarizzare la cronaca per gli ascolti. Eppure ci sono due miliardi di canone. Non è un tradimento del servizio pubblico?
«No. Negli Usa c’è la Pbs, la tv pubblica, rigorosa e raffinata, ma non la guarda nessuno. Il mercato, con cui ci confrontiamo, ci impone di essere di qualità e appetibili, e secondo me ci riusciamo spesso».
La sua intervista a Riina jr ubbidì a questa logica?
«La rifarei sempre, come Enzo Biagi intervistò Buscetta e Liggio, e perché solo da quella intervista si capì in pieno l’impunità di Riina latitante».
Ma non è umiliante per lei avere a che fare con nuovi editori di riferimento che non sanno nulla?
«Assolutamente no, sarei ingeneroso. Chi ci governa, ma anche chi sta all’opposizione, è lo specchio di una generazione che sa poco, e quasi nulla del passato, e io che ho un’età e un’esperienza ho gioco facile a ricordargli il necessario». 
Quanto ancora andrà avanti?
«Dipende dal buonumore del Padreterno, che fin qui mi ha molto assistito, e dalla fiducia nella mia azienda».