il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2019
La Shoah raccontata su Instagram
Leggiamo sui siti di autorevoli testate (Corriere) che è appena partito un “progetto innovativo” consistente nel “raccontare lo sterminio nazista su Instagram trasformando in post e filmati il contenuto dei diari di una 13enne morta ad Auschwitz”; cosa che ha avuto pure “il plauso del premier israeliano” Benjamin Netanyahu, che è come dire il sigillo papale. Ce ne sarebbe abbastanza per metterci in guardia: un miliardario ha un’idea per migliorare il mondo; i media globali chiamano questa idea “progetto” (le cose si fanno o non si fanno; quando sono progetti, a meno che non si tratti di ospedali in costruzione, di solito sono fregature politiche o start-up schiavistiche o installazioni di arte contemporanea o tutt’e tre le cose insieme). Il miliardario distribuisce l’idea a costo zero su una piattaforma di proprietà di altri miliardari; i sacerdoti del politicamente corretto plaudono alla trovata spremendosi dagli occhi la lacrimuccia anti-antisemita tenuta in serbo per casi simili.
Sul profilo Instagram di Eva.stories ecco l’idea del miliardario, che si chiama Mati Kochavi, è israeliano, vive negli Stati Uniti ed è Ceo di numerose società di cybersicurezza con sede in Svizzera per pagare meno tasse. “Cosa sarebbe successo se una ragazza durante l’Olocausto avesse avuto Instagram?”, dice la schermata iniziale del video che lancia la serie basata sui diari di Eva Heyman, 13enne ungherese morta a Auschwitz nel ‘44. Una vocina fatata dice: “Ciao, sono Eva, benvenuti nella mia pagina. Seguitemi”. È il primo passo con cui una vittima del nazismo viene resa simpatica (si chiama nice touch in pubblicità), attualizzata, formattata secondo i codici delle sue coetanee di oggi con molti follower. Quindi una Eva nativa digitale acconciata e vestita secondo lo stile degli anni ’40 si fa selfie mentre sorride, balla, spegne candeline, scherza col nonno; poi piange, viene insultata per strada in quanto ebrea, si selfa mentre passano i soldati tedeschi, subisce la retata delle SS, viene deportata.
Tutto ciò che il “progetto” richiede è la sospensione dell’incredulità: ci fossero stati Internet e i telefonini sotto il nazismo, Anna Frank avrebbe scritto tweet dalla mansarda, e di Eva avremmo storie di Instagram. Che male c’è a piegare la Storia a questa fantasiosa torsione?
Direbbe Sciascia: è il contesto a fare le cose. L’Instagram di Eva vende (anche se sembra gratis) la tragedia di una deportata a Auschwitz mettendola in scena nella forma accattivante del prodotto digitale. Non ci chiede nulla, se non un like: il massimo della deresponsabilizzazione ci viene donata insieme all’infrazione del tabù dentro un’estetica da serie Tv.
È ovvio che per giustificare l’alta futilità didattica dell’operazione si ricorra a ogni trucco e funambolismo verbale, si chiami in causa il valore della memoria e la necessità di insegnare la Storia ai giovani con gli occhi sempre fissi sugli smartphone, dunque impossibilitati (da chi?) ad accedere alle fonti ufficiali sull’Olocausto. I quali giovani, si sa, dedicheranno alla storia di Eva la frazione di secondo e di mente consentita dalla modalità compulsiva con cui tutti scorriamo lo schermo per visualizzare i profili di influencer, calciatori, spettri vari delle mille incarnazioni di Sua Santità la Merce.
Il capitalismo funziona così: desacralizza ciò che è sacro. La pseudo-partecipazione emotiva richiesta dal progetto Eva si basa sull’assunto che la scelta sia tra negare l’Olocausto, come ancor’oggi fanno criminali e/o esponenti politici, e seguire acriticamente, o peggio col sadico piacere dello spettatore che assiste al naufragio, la serie di Auschwitz su Instagram; come se non esistessero più, o non avessero più alcuna efficacia persuasiva, la scuola, i libri degli storici, le testimonianze dei sopravvissuti, le fotografie e i filmati veri del momento in cui l’umanità ha distrutto sé stessa. Forse è così, e se è così il miliardario ci presenta non la tragedia di ieri, ma quella di oggi.