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 2019  maggio 01 Mercoledì calendario

Erica, l’autostoppista delle barche

«Ero partita in barcastop per staccare dal lavoro, per cazzare la randa, e mi ero rapata a zero perché sapevo che le barche su cui avrei viaggiato avevano limitate quantità di acqua. Ma Aphrodite era la fine dei calli sulle mani, la fine delle docce con l’acqua salata e dei winch manuali. E a bordo c’erano due veneti. Mi chiesi se avessi fatto mezzo giro del mondo per finire a mangiare taralli su uno yacht con gente il cui sangue era misto grappa come il mio. No, la risposta era no». Così, con ironia e un po’ di spietata lucidità, Erica Giopp racconta la sua avventura. Per esempio quando, a metà strada del giro del mondo lungo un anno fatto chiedendo passaggi in barca, ha rischiato di finire su una imbarcazione extralusso piena di italiani. E ha capito che lì sarebbe finito il suo destino di barcastoppista. 
Ventisei anni, laureata in Studi orientali, un lavoro tra l’Italia e la Cina, a settembre 2016 si è licenziata ed è partita da casa, a Pieve di Cadore, tra le Dolomiti, per raggiungere il suo futuro capitano, un australiano trovato sul sito findacrew.net, e imbarcarsi un mese dopo. Ma in dodici mesi, tre oceani, 17 mila miglia di navigazione, innumerevoli imbarcazioni Erica non è cambiata, come ammette in «Un anno in barcastop» (edizione AlpineStudio). Niente ammaestramenti di vita, nessuna solfa sulla scoperta di sé o esperienze pseudospirituali, zero réclame, teaser, post epico-esistenziali. In compenso, una grande, vivace attitudine descrittiva. 
Il libro Erica lo ha scritto come ha vissuto questa esperienza: in modo curioso, antiretorico. Con grazia intimista. Un’eccezione, in mezzo a tanti compiaciuti nomadi globali perennemente attaccati al wi-fi e al proprio blog. «Non critico chi fugge, soprattutto chi ha il coraggio di ammetterlo. Biasimo chi fugge pensando di risolvere i problemi, di cambiare, di ritrovare se stesso», osserva Giopp. 
Il barcastop è una tipologia di viaggio diffusa in altri Paesi occidentali, meno presso gli italiani, forse più inclini alle mollezze dei resort e degli chef da spiaggia. Non a caso tra i barcastoppisti abbondano i giovani polacchi: squattrinati, avidi di esperienze, spartani fino a nutrirsi per settimane di sola verza e patate. Si comincia di solito su un sito web di annunci, dove chiunque può offrire la propria presenza a bordo e salpare alla volta degli oceani. «Sono partita per questa avventura immaginando il barcastoppista perfetto: alto, magro e abbronzato, con muscolo definito, sciarpetta al collo e occhiale polarizzato, sacca da vela sulla spalla, laurea in tasca e paghetta della nonna su PostePay. Ma la realtà è che il barcastoppista è di un’imperfezione familiare, quasi imbarazzante: spesso ha la pancia, le rughe o la cellulite, raramente è in forma e occasionalmente in carriera», racconta la ragazza. 
Erica, dopo la partenza da Cartagena, affronta una picaresca traversata dell’Atlantico in barca a vela, in compagnia di una coppia di barcastoppisti italo-polacchi e di un’americana che presto si rivela un’alcolista indefessa. Dopo interminabili giornate segnate dalla bonaccia, l’improbabile equipaggio arriva infine a Saint Martin, nei Caraibi. Scesa da una barca (ed evitato lo yacht di cui sopra), Erica sale su un’altra. E il viaggio riprende: in mesi di navigazione tocca Cuba, Panama, le Galapagos, e poi, attraverso il Pacifico, Tahiti, l’Australia e infine Bali, prima di tornare (in aereo) in Italia. 
In mezzo, molti eroi ed antieroi dispersi nei mari equatoriali, un’infinità di tramonti in serie, tante ore di lavoro duro, a cucinare, a fare il mozzo, a pulire la barca, tutta, fin nello scarico dei gabinetti, in preda a un italianissimo attacco di igiene. 
Consigli utili per futuri barcastoppisti: «A qualunque livello si decida di fissare il limite di tolleranza, la sicurezza va messa al primo posto, perché ci sono capitani che intraprendono traversate oceaniche tenendo le luci di navigazione spente per risparmiare energia, e gente che non ha rinnovato la scadenza della scialuppa di salvataggio perché non aveva una lira». 
Senza dimenticare che i problemi lasciati in sospeso alla partenza «aspettano al varco, fucile carico, cane al guinzaglio, mascella serrata. Come l’Australian Border Force aspetta sul molo le barche che varcano i confini marittimi del Paese senza aver dato il preavviso obbligato di 48 ore».