La Stampa, 1 maggio 2019
Mia madre Audrey Hepburn
Per una volta Hollywood è sullo sfondo, solo una parentesi nella vita di una bambina nata in Belgio, cresciuta tra Regno Unito e Paesi Bassi, incrociando passi di danza mentre si addensavano le ombre del nazismo, molto prima di sapere che un giorno sarebbe diventata Audrey Hepburn. Nel nome della mostra che oggi si inaugura a Bruxelles, «Intimate Audrey», c’è una volontà precisa, difesa con forza dal figlio Sean Hepburn Ferrer, che l’ha organizzata, nel novantesimo anniversario della nascita della diva: «C’era il desiderio di riportare mia madre alle sue radici, per descriverne l’aspetto più intimo e personale». Gli introiti dell’esposizione, allestita su due piani dell’«Espace Vanderborght», saranno devoluti a «Eurordis- Rare Diseases Europe» e all’ospedale «Brugmann and Bordet», e anche questa non è una scelta casuale: «Mia madre è morta di un cancro raro che tocca solo una persona su un milione».
Perché le interessava privilegiare l’aspetto più privato di Audrey Hepburn?
«Volevo offrire la possibilità di un viaggio nell’animo della donna, non della star, né dell’icona di stile e di moda. Mi piacerebbe che la gente si rendesse conto della semplicità di questa persona che ha vissuto in modo umile, in un vestitino di cotone, come si dice. La ragione del suo mito, così vivo, è in questo. La consideriamo tutti, istintivamente, una di noi e non una di “loro”».
Nel suo libro «Audrey Hepburn, un’anima elegante» ha parlato della «radicata tristezza» che aveva segnato l’esistenza dell’attrice. Secondo lei a cosa era dovuta?
«Per mia madre la tristezza è stata un elemento ricorrente. L’ha vissuta quando ha perso il padre da piccola, poi c’è stata la guerra e ha avvertito la fame emotiva che questa le aveva lasciato, e poi si è sentita tradita, 50 anni dopo, ritrovando, da ambasciatrice Unicef, campi simili a quelli di concentramento, pieni di persone che aspettavano di morire. Il mondo le aveva promesso che questo non sarebbe più accaduto, e invece è successo di nuovo».
Qual è il gesto, o il ricordo, di sua madre che le è rimasto più impresso?
«Fino a 5 anni sono sempre andato con lei sui set, poi ho iniziato la scuola e mia madre, un anno dopo, mi ha fatto il regalo grandissimo di abbandonare il cinema per starmi accanto. Ha lasciato la carriera per fare la mamma, un passo veramente enorme».
Ogni tanto succede che un’attrice venga paragonata a sua madre, però non è ancora nata una vera erede di Audrey Hepburn. Perché?
«Ci sono tantissime attrici brave, belle, e uniche a loro modo, come per esempio Natalie Portman. Non bisogna cercare per forza somiglianze e ripetizioni. Lo stampo di Audrey Hepburn era quello, e si è rotto. E poi conta anche l’epoca, lei ha creato, dopo la moda della donna sexy del dopoguerra, un nuovo look, una nuova immagine. Ha avuto una visione, la fortuna di cogliere e capire un momento».
Lei ha un fratellastro italiano, sua madre ha avuto un rapporto intenso con il nostro Paese. Come lo descriverebbe?
«La nonna veniva in Italia prima della guerra, mia madre ha sposato uno psichiatra italiano, Andrea Dotti, e ha avuto un figlio, Luca. Con il vostro Paese ha avuto un legame forte, un grande amore, fatto di momenti diversi, buoni e meno buoni».