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 2019  maggio 01 Mercoledì calendario

Gli ultimi giorni a Lisbona del Grande Torino

Quando gli Immortali se ne sono andati avevano tra i 21 e i 33 anni. Troppo giovani. Troppo forti per smettere di vincere. Troppo amato, quel Grande Torino, per non cercare nella sua ultima maledetta trasferta qualcosa da salvare, da ricordare con tenerezza. Settant’anni fa, oggi: 1° maggio 1949, partenza per Lisbona, dove ad attendere i granata di Valentino Mazzola c’è il Benfica per la partita in onore di Francisco «Chico» Ferreira, pure lui capitano-simbolo. Un viaggio-premio di tre giorni, a spezzare la routine di un altro campionato ormai vinto. Luoghi mai visti e intriganti, in una nazione povera e intristita dalla dittatura di Salazar e del suo Estado Novo ma nemmeno sfiorata dalla guerra.
Sistemato in un albergo di lusso fronte mare, con terme e parco, accolto con onori ed entusiasmo adeguati al rango di fenomeno del calcio europeo, ormai pronto a festeggiare il quinto scudetto consecutivo, blindato il 30 aprile dallo 0-0 in casa dell’Inter: era felice, quel Toro. L’hotel e il ristorante che lo ospitarono non esistono più da decenni, ma il suo passaggio ha lasciato tracce ancora evidenti. Nel cuore dei «benfiquistas» riconoscenti, nello splendido museo del club, nel docufilm «Benfica-Torino 4-3» firmato nel 2012 con Nuno Figueiredo da Andrea Ragusa, torinese e torinista, ricercatore e traduttore, 40enne dal 2008 nella capitale portoghese: «Il mio lavoro testimonia quanto il ricordo di quella partita qui sia ancora vivissimo. Per un Paese e un calcio allora isolati e arretrati fu un vero evento, gratificante e coinvolgente». Fu una festa per tanti, poche ore dopo diventò lutto collettivo. Con sensi di colpa incancellabili. «Ferreira non si è più ripreso. Di quei giorni non parlava mai - assicura Luis Lapão, curatore del museo del Benfica -. E io, che ho iniziato ad andare allo stadio con mio papà a 5 anni e oggi ne ho 51, ho sentito il nostro pubblico applaudire una vittoria degli avversari una sola volta: era il 27 luglio 2016 e al “Da Luz” ci giocavamo la Coppa Eusebio contro il Toro».
Come vuole Valentino
Il 3 maggio 1949 si giocò invece per la Coppa Olivetti, ora esposta in una vetrina del museo «Cosme Damião» con un pezzo della fusoliera dell’aereo caduto a Superga, il gagliardetto granata e giornali d’epoca. L’idea dell’amichevole prese corpo dopo l’Italia-Portogallo 4-1 genovese del 27 febbraio. Ferreira, classe 1919 come Mazzola, cercava un rivale importante per la «sua» partita. Non stava smettendo (lo avrebbe fatto soltanto nel 1952), ma gli undici anni di Benfica e la riconosciuta leadership in Nazionale gli concedevano già un «homenagem», con onori e incasso tutti per sé. Era un’usanza diffusa nella penisola iberica, sconosciuta in Italia. «Chico» ne parlò a Valentino che, vicino a lasciare il Toro per l’Inter, prese a cuore l’invito. Voleva creare un precedente: poteva essere lui il primo a meritarsi qualcosa del genere da noi. 
«Qui è meglio della Riviera»
Si parte, dunque. Tra la trasferta nerazzurra e la sfida al Filadelfia contro la Fiorentina. Ma volare il 1° maggio, festa dei lavoratori ripristinata nel 1945 dopo il buio fascista, non è semplice. L’Italia in quel giorno si ferma e soltanto in extremis il Toro evita il decollo dalla Svizzera. Mazzola ha la tonsillite. Come Grezar e Maroso ha saltato la sfida con l’Inter ma vuole esserci a tutti i costi. Arriva l’ok dal «Forlanini» milanese: è domenica mattina, all’ora di pranzo si fa scalo per il rifornimento a Barcellona. Dov’è fermo anche il Milan di Nordahl, diretto a Madrid per inaugurare lo stadio «Chamartin» del Real. Sbuca un dirigente dell’Espanyol che propone alle due italiane: «Perché al rientro non vi fermate qui per una bella amichevole?». Sarebbero soldi, ma è troppo complicato. Si riparte, e sulla rotta per Lisbona il Toro trova vento e piovaschi. Tempo magnifico, invece, all’atterraggio. È Ferreira ad accogliere la comitiva. Abbraccia Mazzola, presto requisito da Alexandre Trabucho, giornalista di «A bola», per un’intervista nella sala della dogana. Pochi minuti, perché l’agenda è fitta. Dall’aeroporto di Sacavem si scende alla nostra ambasciata che dà il benvenuto a chi con le sue imprese sta aiutando l’Italia a rialzarsi dalle macerie della guerra. Poi, barra a Ovest: sopralluogo allo stadio nazionale Jamor, vanto del regime inaugurato nel 1944; fine corsa all’Hotel Parque di Estoril, Costa do Sol. Anche qui, cronisti. Cercano Mazzola, la stella. Lui dichiara: «Gran bel clima e posto splendido, persino meglio della nostra Riviera». È il titolo, per i quotidiani. Che garantiscono: «Alle 10 di sera i giocatori erano già a letto». In camera, meglio. Magari a giocare a carte.
Il tennista cicerone
Il lunedì ha ritmi vacanzieri. A metà mattinata la sgambata sul campo dell’Estoril Praia. Dopo il pranzo in hotel, Lisbona centro: ricevimento ufficiale in Municipio, poi un bel giro a piedi per foto e acquisti. Il cicerone è Francesco Romanoni, milanese tifoso juventino, tennista professionista, capitano non giocatore del Portogallo di Davis, impegnato in quei giorni contro l’Inghilterra. Ore liete e spensierate. Rientro alla base passando per gli impianti del Benfica in Campo Grande e l’affascinante Sintra. Comincia davvero a essere un bel viaggio.
Unico deluso il re di maggio
È il giorno della partita. Sui giornali si leggono inviti a imprese e uffici a concedere permessi a chi alle 18 volesse partecipare alla festa del grande Ferreira, opposto ai «maestri del Torino». Attesi 40 mila spettatori, misure eccezionali per trasporti e viabilità. Allo stadio ci sono anche lo Sporting, che a giugno deve sfidare i granata in Coppa Latina, e Umberto di Savoia, in esilio nella vicina Cascais. Il Benfica la prende molto sul serio, il Toro parte bene e poi «cavallerescamente» perde. Il «re di maggio», tornato in auto da Siviglia dove si trova la figlia Maria Pia, dice: «L’avessi saputo, sarei rimasto là». È l’unico deluso di una giornata che termina con la «cena della fratellanza» al ristorante Alvalade con vista lago, vicino allo stadio del Benfica. Si mangia bene, si scherza, nascono amicizie tra atleti impeccabili in giacca e cravatta. Il Toro dona al Benfica una riproduzione in scala della Mole in argento, fermacravatte e portasigarette per i giocatori. Riceve un vassoio, medaglie commemorative e la promessa della rivincita da giocare al Filadelfia domenica 19 giugno.
Un sinistro presagio
Chiosando l’articolo sulla partita, l’inviato della «Stampa» Luigi Cavallero scrive: «Le nubi e i venti ci siano propizi e non facciano troppo ballare». Ripensa all’andata, sa che in Italia il tempo è pessimo, con precipitazioni da record. A Lisbona, invece, mercoledì 4 è un’altra bella giornata. Con tre suoi dirigenti, Ferreira scorta il Toro in aeroporto di prima mattina. Ha un sacco pieno di tonno in latta da distribuire a chi lo aveva fatto felice. Sul trimotore Fiat G212 partono anche un bel po’ di bottiglie di Porto e i regali per mogli, fidanzate e figli. Mazzola è l’ultimo a salutare l’amico: «Ci vediamo a Torino». Invece, lo schianto di Superga cancella tutto. Chi piange maledice quella trasferta, bellissima per chi l’ha vissuta e non ha potuto raccontarla. L’Italia è in lutto, il Portogallo pure. A Madrid, all’ora di cena, la tremenda notizia arriva al Milan che il giorno dopo dovrebbe rimpatriare in aereo. L’ordine del presidente Trabattoni terrorizzato è: «Tornate in treno». Il viaggio dura due giorni. Saranno quindici, l’anno dopo, per l’Italia che non si fida ancora di volare e sceglie la nave per difendere in Brasile i due Mondiali vinti nel 1934 e 1938. Fa una pessima figura e non è davvero una sorpresa. Perché quella doveva essere la Nazionale di Mazzola e degli altri Immortali.