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 2019  maggio 01 Mercoledì calendario

Lunga intervista a Viktor Orbán

Viktor Orbán, l’uomo che vuole riscrivere la geografia del potere della Ue, arriva puntuale nella sala della biblioteca dell’ex monastero dei carmelitani. Il suo ufficio di primo ministro dell’Ungheria è due porte più a destra. Maschera bene il jet lag, è tornato da poche ore dalla Cina dove con altri 36 leader mondiali ha stretto mani e accordi sulla nuova Via della Seta. Non si può fare gli schizzinosi con i quattrini, anche se sono yuan anziché dollari o euro, che i partner si chiamino Ungheria o Italia e «bene - dice Orban - ha fatto Conte a stringere accordi con Xi».
Indossa una camicia celeste e una giacca blu sportiva su un paio di jeans. Da Buda, la collina a Ovest del Danubio, troneggia sulla capitale, e quando spiega, accompagnandoci sul terrazzo, che «tutta Budapest è stata bombardata ma l’abbiamo ricostruita», sprizza orgoglio identitario, «patriottico» dirà nel corso dell’intervista concessa in esclusiva a «La Stampa». 
Il colloquio sembra non iniziare mai perché l’uomo che una parte d’Europa ha insignito della carica di gran maestro del sovranismo e l’altra insegue a colpi di sanzioni (votate ma non entrate in vigore) per lo stato di diritto precario - sempre a detta dei detrattori - ama parlare di calcio, della sua scuola dedicata a Ferenc Puskas, divinità globale del pallone che fu, e di Roger Scruton e Guglielmo Ferrero e dei libri sul potere e le nazioni e sull’Impero Romano che ha sul comodino e nella sua libreria particolare- al pari del saggio sulla virtù del nazionalismo del filosofo israeliano Yoram Hazony.
Parla senza inflessioni particolari, gli occhi fissi sull’interlocutore, talvolta prende appunti, qualche scarabocchio su un taccuino con il timbro governativo. Scherza con i suoi consiglieri, «mi controllano, ma ignoriamoli». E giù un sorso di tè prima di ricordare il suo primo incontro in Italia con Berlusconi, aspirante politico, mentre lui, Orban, in quel novembre del 1993 era solo un deputato di belle speranze e pochi anni. Andò a Milanello, il regalo del Cavaliere fu la cena al tavolo con Capello e la stretta di mano con Van Basten. «Silvio voleva scendere in politica e voleva che io spiegassi come era organizzato il mio movimento. Mi disse: Viktor, fai tu». 

Signor primo ministro è passato da Berlusconi a Salvini. Stesso feeling?
«Il mio miglior amico è sempre Berlusconi, persona grandiosa, epocale. Ma il ruolo di Salvini oggi è più importante». 
Quindi largo a Salvini?
«Domani viene in Ungheria, un Paese in cui è considerato un amico. Salvini ha un ruolo politico importante, noi abbiamo interesse a consolidare con lui un buon rapporto. La gente qui lo vede come un compagno della stessa sorte, subiamo entrambi attacchi, ma lui è l’eroe che ha fermato per primo le migrazioni dal mare, noi sulla terra». 
Incontro fra leader di partito o visita ufficiale in veste di vicepremier?
«Lo riceverò come ministro del governo italiano e vicepremier, ma non parleremo solo di temi bilaterali, bensì anche di affari di partito. E poi andremo a Roeszke, confine con la Serbia, per fargli vedere come difendiamo noi la frontiera». 
Salvini vorrebbe che il Partito popolare europeo si alleasse con lui dopo il voto europeo, e lei?
«Diciamo così, il Ppe si sta preparando a compiere un suicidio, vuole legarsi alla sinistra e così andare insieme a fondo. La verità è che non abbiamo successo, abbiamo sempre meno primi ministri del Ppe e avremo anche meno seggi».
Ma il suo partito Fidesz non è sospeso dal Ppe? Sulla sua testa non pende il giudizio sull’espulsione?
«È sul Ppe che pende il giudizio. Degli elettori. Ecco io vorrei che il nostro partito evitasse questa sorte suicida».
E pensa di salvarsi dal cappio grazie a Salvini?
«Non leghiamoci alla sinistra, cerchiamo un’altra strada, quella della cooperazione con la destra europea. Non sappiamo quale formazione Salvini costruirà, ma speriamo riesca a crearne una forte. Il Ppe deve collaborare con questa destra europea. Non è un segreto che io sostengo questa linea, la forma di questa partnership la vedremo più avanti, ma vorrei proprio che il vostro vicepremier cooperasse con il Ppe. Un ruolo chiave però lo deve svolgere Forza Italia, è il gruppo di Berlusconi a far parte del Ppe. Quindi questi sono affari italiani».
Lei ha costruito la sua campagna elettorale sul tema migranti.
«Non solo la campagna ma anche il lavoro dei prossimi dieci anni».
In molti Paesi europei, e l’Italia è fra questi, i sondaggi dicono che le preoccupazioni degli elettori sono più per la disoccupazione e l’aumento delle diseguaglianze che per le migrazioni. Come si concilia la sua visione con quelle di altri suoi alleati stranieri?
«La migrazione è la questione più grande che ci pone di fronte la Storia. Io la chiamo migrazione dei popoli, una grande migrazione di massa. Alla base di questa c’è una ragione demografica: gli europei sono sempre meno, in Sahel, nel mondo arabo e nell’Africa nera ci sono sempre più persone. Che si muovono, vagano, girovagano per approdare qui. Quando ci sono attentati terroristici o fatti criminali particolari la testa della gente si risveglia e capisce quanto il tema migrazione è vitale, ma quando casi così vistosi sono assenti, e grazie a Dio attualmente non ce ne sono, questo timore nelle persone diminuisce. Ma non significa che la questione sia sparita. Compito del leader è quello di tenere a mente il problema e agire preventivamente per tenere lontani i guai prima che una nuova ondata, perché arriverà, giunga. Fu così nel 2015 e sarà così anche in futuro. I grandi esodi devono essere previsti e, se non si riesce a prevenirli, vanno fermati. Per questo penso che Salvini sia oggi la persona più importante d’Europa».
Roma vorrebbe rivedere - almeno sulla carta - l’accordo di Dublino e chiede la redistribuzione. Lei è l’alfiere del no alle quote. Posizioni inconciliabili?
«Gli italiani vorrebbero sbarazzarsi degli immigrati e dividerli fra gli altri Paesi e per questa mossa a Bruxelles è stata inventata un’ideologia, si chiama solidarietà. La nostra posizione è diversa: ci siamo difesi e abbiamo impedito che arrivassero qui e non vorremmo nemmeno che i migranti arrivassero da voi». 
E l’accordo di Dublino, la storia dell’asilo nel Paese di primo approdo?
«Morto. Una norma giuridica che nessuno rispetta non esiste».
Così si apre un vuoto legislativo, cosa propone allora?
«Creando un corpo sul modello dell’Ecofin: i ministri dell’Interno dei Paesi di Schengen devono lavorare insieme per trovare soluzioni intergovernative. Quindi Bruxelles, la Commissione e il Parlamento europeo, devono togliersi di mezzo». 
Sta delineando un’idea d’Europa molto chiara. Come immagina la Ue fra 20 anni?
«L’Europa aveva una dinamica interna costruita su quattro protagonisti: Germania, Regno Unito, Mediterraneo (ivi compresa la Francia) e Mitteleuropa. Il rapporto fra questi quattro attori formava un equilibrio politico, ma ora si è dissolto. Bisogna crearne uno nuovo».
Perché si è dissolto?
«Il Regno Unito ha scelto di andarsene, la Germania ha raccolto troppi vantaggi dall’eurozona senza condividerli con i partner. E infine i Paesi dell’Europa centrale hanno avuto uno sviluppo più rapido del previsto tanto che grosso modo entro il 2030 diventeranno contributori netti della Ue. Oggi l’interscambio Visegrad-Germania é più del doppio di quello fra Berlino e Roma. Questi equilibri necessitano di nuovi rapporti interni, la Mitteleuropa deve contare di più e la Germania deve invece abbandonare la pretesa che tutto si decide lungo l’asse franco-tedesco».
Parla di un’Europa a più velocità?
«No, io parlo di tre Europe, di tre dimensioni diverse. Oggi abbiamo tre Europe ma facciamo finta ve ne sia una sola».
Quali sono?
«La prima è l’Europa del denaro, l’eurozona, quindi c’è quella della sicurezza, ovvero i Paesi dell’area Schengen. Infine quella del mercato comune. Queste sono diverse fra di loro. Io accetto vi siano differenze, che ognuno decida di quale gruppo o gruppi vuol far parte. Coloro che stanno nell’eurozona vanno nella direzione dell’unione politica, è una decisione loro, io non ci sto. L’importante è che tutti stiano nel mercato comune. Così riusciremo poi, nel secondo tempo, a presentare un’offerta attraente al Regno Unito e persino alla Turchia». 
In Europa c’è un ritorno dei nazionalismi, non teme sia fonte di instabilità?
«Nella terminologia europea oggi il nazionalismo è visto con accezione negativa, per me non è così. La stragrande maggioranza degli intellettuali europei ritiene che guerre, dittature, sofferenze sono state provocate dai nazionalismi. Non sono d’accordo. Queste tragedie infatti sono state innescate dai tentativi fatti per la costruzione di vari imperi europei. E io in Bruxelles attualmente intravedo proprio questo pericolo. Le élite bruxellesi dicono che noi stiamo alimentando il nazionalismo, noi pensiamo che siano le élite di Bruxelles a voler rianimare un pericolo maggiore volendo costruire un impero. Vogliamo uscire dalla battaglia terminologica sul nazionalismo? Ecco, allora scriva che io sono un patriota».
L’opposizione al multiculturalismo che lei manifesta non le sembra una posizione anti-storica nel mondo della globalizzazione?
«Europa occidentale e centrale su questo sono molto diverse. I grandi spiriti che determinano il pensiero degli occidentali festeggiano ogni qualvolta vedono l’Europa volgersi in una direzione post cristiana e post nazionale. Lo chiamano progresso. Questo modo di pensare mi è estraneo. Io non provo gioia, la considero invece una resa della nostra identità. Non metto in dubbio il diritto di qualcuno a bearsi del suo multiculturalismo, ma vorrei che loro prendessero atto che l’Ungheria non li seguirà. Anzi la nostra Costituzione dice il contrario, sostiene che il cristianesimo è una spinta che mantiene forte la nazione». 
Cos’è la democrazia illiberale?
«È la democrazia fondata sul cristianesimo, chiamata illiberale, non significa necessariamente che sia anti-liberale. Una distinzione importante, questa. Oggi sono i democratici liberali i veri nemici della libertà. Essendo io un sostenitore della libertà devo essere illiberale». 
Sposterà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme seguendo l’esempio di Trump?
«Abbiamo aperto un ufficio con funzioni diplomatiche per le relazioni commerciali con l’Estero a Gerusalemme, ma per ora l’ambasciata resta a Tel Aviv».
L’Ungheria fa affari con la Cina, stringe accordi energetici con la Russia di Putin, lei dialoga con tutti anche con i nemici di Trump. Cosa gli dirà quando lo vedrà?
«Nell’elenco possiamo mettere anche la Turchia, raddoppieremo l’interscambio».
Cosa riferirà al presidente Usa?
«Con lui c’è una sintonia spirituale, il suo America First, il mettere al centro, confessandoli apertamente, gli interessi nazionali è qualcosa che condivido appieno. Molti lo fanno, sostengono i propri interessi ma non lo dicono. Come sollecita anche il presidente Trump dobbiamo effettivamente aumentare le spese militari, ma i nostri rapporti economici sono buoni come non mai. E poi abbiamo bisogno del mercato americano, l’economia ungherese si basa per l’80% del Pil sull’export, il nostro mercato domestico è piccolo, sviluppare politiche commerciali è fondamentale se vogliamo garantire uno standard di vita elevato agli ungheresi. Ecco perché il trade è fondamentale e in tutto questo la chiave è la Ue, il mercato unico, quel terzo pilastro di cui ho parlato prima. La strada della Brexit non é percorribile per l’Ungheria. Ma l’integrazione politica, il delirio degli Stati Uniti d’Europa, é un’altra vicenda.