Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto
Italiani creduloni e disinformati. Alla conferenza Ipsos di Londra del 2015 il clima era da Oscar: in quale nazione fra le quaranta sottoposte a centomila interviste c’era maggiore distanza fra realtà dei fatti e percezione comune? Abbiamo vinto noi, ci racconta Bobby Duffy, docente al King’s College di Londra e ricercatore di Ipsos Mori, in un libro, I rischi della percezione (Einaudi), nelle librerie da ieri, in cui si chiede come e perché abbiamo opinioni sbagliate su quasi tutto. Un saggio affilato, non pessimista su un problema cognitivo che si trasforma in un problema democratico: gli immigrati non sono poi così tanti, le adolescenti non restano incinte così spesso e perfino i pitbull non sono poi così feroci, ma la maggioranza pensa il contrario, e prende decisioni su quelle false idee.
Non è piacevole vincere il premio di popolo più credulone. Dove abbiamo sbagliato?
«In effetti avete idee parecchio sbagliate sul vostro paese. Pensate che il 48% della popolazione sia più vecchio di 65 anni, ma è il 21%. Pensate di avere il 28% di immigrati ed è il 9%. E solo l’8% di voi crede che il tasso di omicidi sia calato dal 2000, mentre è crollato del 39%. Ma tranquilli, nessuno fa molto meglio. Quel che fa la differenza è l’espressività emozionale. Italiani e americani esprimono molto le loro emozioni, tedeschi e svedesi poco, e questo corrisponde alle loro posizioni in graduatoria. Quando un problema ci preoccupa, sembra molto più grande che nella realtà, e citare un numero a caso serve a comunicare un’emozione».
Perché tendiamo così spesso a farci idee sbagliate?
«La distorsione confermativa è la tendenza a dare più peso alle informazioni che combaciano con le idee che abbiamo già: non ci piace scoprire che abbiamo torto. Cultura e capacità di comprendere le statistiche contano meno di questa debolezza umana. Contano anche le false idee indotte da social, politici, per loro interesse o perché anche loro sbagliano. È un sistema di inganni: le nostre valutazioni errate deformano le informazioni che riceviamo da loro, e loro sfruttano i nostri errori».
Sì, ma perché sopravvalutiamo le informazioni negative? Siamo animali terrorizzati?
«È un tratto evolutivo. Quando vivevamo nelle caverne, reagire alle cattive notizie poteva salvarci la vita. Vera o falsa, alla voce dell’arrivo di una tigre dovevamo scattare. Nel cervello esposto a immagini negative si registrano più reazioni e le informazioni negative vengono richiamate più rapidamente. Oggi questo ha delle conseguenze spiacevoli: siamo manipolabili, da chi grida che tutto va male e andrà peggio. Per questo raccomando: ricordate che le cose vanno meglio di quel che vi sembra».
Un esempio: i vaccini. Come si passa dagli applausi commossi per la scoperta dell’antipolio alle minacce ai medici?
«È triste come si affermi una teoria del complotto e come sia difficile sradicarla. Gli ingredienti sono fissi: un tema emotivamente forte (la salute dei nostri figli), un senso di minaccia, argomenti troppo complessi per essere verificati, e il sospetto che misteriosi poteri ci nascondano la verità per interesse».
Il caos Brexit dimostra che lo slogan “dateci i fatti e decideremo” è un fallimento.
«Brexit è un tremendo esempio di come la chiave emotiva domini le decisioni di un paese. È deprimente che dopo tre anni di discussioni circolino ancora informazioni scorrette. Ma non è la vittoria definitiva dell’irrazionalità politica. Primo, perché non c’è mai stata un’età dell’oro in cui le scelte collettive fossero del tutto razionali. Secondo, le persone rispondono a stimoli diversi e i fatti non sono così inefficaci».
Ma tanti continuano a pensare di aver ragione anche quando gli si mostrano i dati reali.
«Quando abbiamo detto agli italiani che gli immigrati sono il 9%, la risposta comune è stata: non ti credo. È la dissonanza cognitiva: le cose che ci contraddicono ci destabilizzano, perché il modo in cui vediamo la realtà fa parte della nostra identità. Almeno fino a quando la sofferenza di tenere il punto diventa maggiore di quella di cambiare idea».
Quindi insistere con i dati reali è utile?
«Le nostre false credenze fanno sistema, il fact-checking non può limitarsi a correggere un singolo dato scorretto. Si possono fare molte cose, per esempio cambiare gli algoritmi dei motori di ricerca perché mostrino per primi non i risultati più popolari, ma quelli verificati. Ma questo può portare a verità autorizzate dall’alto, e torniamo daccapo».
Lei sostiene che la narrazione emotiva produce false credenze. Dovremmo contrapporre storytelling veri a quelli falsi?
«Livello emotivo e razionale sono legati. Anche la speranza suscita risposte potenti, non solo la paura. In fondo entrambe le cose interrogano il tipo di società in cui viviamo. Bisognerebbe spingere la gente a pensare alla società in cui vorrebbe vivere, non a quella in cui ha paura di vivere».
Alla fine, ha vinto Nietzsche? Non esistono i fatti ma solo le opinioni?
«Nietzsche dice che esistono le interpretazioni, ed è vero, ciascuno di noi interpreta le informazioni che riceve. Ma quelle informazioni devono pur esistere. Possiamo avere interpretazioni diverse sul significato di una cifra, ma devo almeno avere una cifra, e deve essere corretta. Se devo scegliere, io sto con Aldous Huxley: i fatti non smettono di esistere solo perché li ignoriamo».