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 2019  maggio 01 Mercoledì calendario

Appunti sulla crisi in Venezuela

Federico Rampini per la Repubblica
Blindati “socialisti” contro civili indifesi: dopo Budapest 1956, Praga 1968, Tienanmen 1989, si rischia un orrido remake a Caracas. Un regime che si dice di sinistra, palesemente illegittimo dopo le ultime frodi elettorali e le violazioni ripetute della Costituzione, maneggia la forza militare per reprimere il suo popolo.
È un popolo disgraziato quello del Venezuela: sotto la sua terra e le sue acque litoranee ci sono alcune fra le più grandi riserve petrolifere del pianeta. Ricchezze sprecate, dilapidate, prima da Chavez e ora da Maduro, caricature feroci e oscene dei sogni di Bolivar e Che Guevara. Con più di tre milioni di cittadini costretti all’esilio, i rimanenti 30 milioni esposti a privazioni drammatiche, e abusi continui dei diritti umani, questo è da tempo uno Stato fallito nonché uno Stato-canaglia, governato da un potere criminale.
Ieri le forze armate sono parse sul punto di dividersi. Alcuni reparti militari sono scesi in piazza col presidente Juan Guaidò, il 35enne che viene riconosciuto come legittimo da oltre 50 Paesi, tra cui la maggioranza dei suoi vicini sudamericani. Altri però sono rimasti fedeli a Maduro e non hanno esitato a caricare i civili.
L’impressione col passare delle ore è che il tentativo di attirare il potere militare dalla parte di Guaidò sia pieno di incognite. L’alleanza fra le forze armate e Maduro è difficile da smontare.Sono numerosi i fattori che tengono unito l’esercito a questo presidente fallimentare, affamatore del suo popolo. Al primo posto il petrolio: Maduro ha dato ai militari un accesso privilegiato alle ricchezze energetiche del Paese. Al secondo posto – novità allarmante da alcuni anni – c’è il narcotraffico, ormai gestito direttamente dagli uomini in divisa. Gli equilibri di potere nel mondo dei narcos si evolvono velocemente e oggi un ruolo di primo piano lo svolge il narcotraffico di Stato gestito dalle autorità di Caracas. Al terzo posto ci sono gli appoggi esterni: Russia, Cina e Cuba stanno supplendo con le loro risorse alle sanzioni varate dagli Stati Uniti. È un mix esplosivo. Un esercito locale corrotto; sostenuto da Putin e Xi Jinping che hanno interesse a rafforzare il loro insediamento nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.
In questo cinico calcolo geostrategico, le sofferenze dei venezuelani sono irrilevanti. Purtroppo anche coloro che hanno fatto la scelta giusta sostenendo l’anti-Maduro dal 23 gennaio scorso – e per una volta questo include Donald Trump – non hanno idee chiare su come uscirne. Lo stesso Guaidò ieri è parso sul punto di cercare legittimità tra i ranghi dei militari. È un’opzione pericolosa, perché può conferire all’esercito ancor più potere di quanto ne abbia adesso. Guai se passa il principio che a scegliere i presidenti è il numero di reggimenti che si schierano con loro. In un’America latina largamente liberata dalle dittature militari, riesumare i fantasmi del passato sarebbe un terribile errore. Gli Stati Uniti – almeno finora – hanno dato prova di moderazione, l’opzione di un intervento militare è stata evocata finora in modo molto teorico: il Pentagono sembra restìo a mandare soldati in Sudamerica, malgrado Putin faccia di tutto per provocare un’altra “crisi di Cuba 1962”. Ma Washington ha commesso degli errori, con sanzioni che hanno colpito anche le rimesse degli emigrati, aggravando i disagi della popolazione. Né Washington né i suoi alleati latinoamericani hanno trovato una mediazione che offra a Maduro una via d’uscita onorevole, e ai militari delle garanzie economiche. È uno scenario arduo, implica dei patti luciferini: quanto denaro bisogna offrire per la neutralità di un esercito che ormai al suo interno ha gli eredi di El Chapo e Pablo Escobar? D’altra parte nessun costo forse è troppo elevato, se serve a evitare nuovi spargimenti di sangue.
Un’Amministrazione Usa meno isolazionista starebbe lavorando per delegare ai governi dell’area il compito di mediare: il Messico potrebbe svolgere un ruolo perché ha un leader della sinistra populista, ma attento a non guastarsi i rapporti con gli Usa.
In un mondo ideale l’Europa avrebbe l’indipendenza e la stazza geopolitica per farsi avanti. L’Italia in particolare vista l’importante comunità di connazionali e oriundi che vivono in Venezuela. A febbraio il governo Conte si chiamò fuori, su pressione dei 5 stelle “maduriani”, isolandosi dal concerto europeo favorevole a Guaidò. Si può ancora rimediare; anzi si deve, quando la posta in gioco è così drammatica.

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Paolo Manzo per il Giornale
P er capire cosa potrebbe succedere in Venezuela partiamo da una premessa generale. Non è facile che regimi autoritari come quello di Nicolás Maduro escano con le buone e, oggettivamente, non pare plausibile che i 54 Paesi che hanno riconosciuto Juan Guaidó, pur con tutte le loro differenze ed interessi nella regione si imbarchino in una missione internazionale, neanche gli Stati Uniti di Trump. La scelta di ieri di Guaidó di liberare Leopoldo López grazie all’appoggio di apparati delle forze di sicurezza bolivariane che hanno scelto di stare dalla sua parte deriva da questo presupposto ma dimostra anche la debolezza crescente di Nicolás Maduro agli occhi di gran parte della popolazione, stremata da anni di penuria e fame.
E qui sta l’altro dato fondamentale: dal 2015, anno in cui il 70% dei venezuelani votò contro il partito di regime proprio perché stanchi di patire la fame e dovere emigrare, invece di fare un passo indietro ed accettare le regole democratiche il delfino di Chávez non ha fatto che violare la Costituzione chavista con un crescendo rossiniano. Prima non riconoscendo grazie al controllo del tribunale elettorale i deputati dello stato di Amazonas che avrebbero garantito la maggioranza dei due terzi all’opposizione in Parlamento. Poi mettendo un pluriomicida alla guida della Corte Suprema. Infine, annunciando il primo maggio di due anni fa e per bocca dello stesso Maduro, la sostituzione di un Parlamento esautorato di fatto di ogni potere con un’Assemblea Costituente incentrata sul modello comunista cubano. Date queste premesse risulta difficile oggi prevedere lo sviluppo venezuelano perché, se da un lato sul fronte internazionale, il climax pro Guaidó si era raggiunto con il concertone del 22 febbraio scorso che avrebbe dovuto precedere di 24 ore l’entrata degli aiuti umanitari da Colombia, Brasile e Curaçao, oggi il regime è al tempo stesso più debole ma anche più forte.
Più debole perché, se avesse potuto, avrebbe fatto arrestare il presidente ad Interim già il 23 gennaio scorso quando questi, sorprendendo tutti, aveva giurato basandosi su tre articoli della Costituzione che da presidente ad interim avrebbe messo fine all’usurpazione del potere di Maduro (rieletto in un voto farsa lo scorso maggio) per poi instaurare un governo di transizione e procedere ad elezioni libere. Più forte perché, con il trascorrere dei mesi, gli organismi internazionali vicini al castro-comunismo o ad altre dittature non hanno fatto mancare l’appoggio al regime e, soprattutto, la gente non ha ricevuto gli aiuti tanto agognati (quelli distribuiti dalla Croce Rossa non hanno avuto un impatto significativo). Il risultato? Il cronoprogramma che potrebbe uscire dopo la decisione di ieri di Guaidó di liberare dai domiciliari Leopoldo López e iniziare così la fine dell’usurpazione potrebbe portare sì ad elezioni anticipate, ma senza il cambiamento sperato. Molto dipenderà da quanto faranno da oggi in poi i venezuelani ma soprattutto le Forze armate.
Di certo c’è che dopo l’inizio dell’Operazione Libertà la situazione sembra essere arrivata ad un punto di stallo che potrebbe essere risolta in due modi: o con il ritorno ad un tavolo del dialogo e questo è senz’altro l’interesse della dittatura di Maduro, o con un crollo del regime, un implosione, sul modello di quanto accadde in tanti Paesi ex comunisti, a fine anni Novanta. Per folle che possa apparire «dove finisce la logica comincia il Venezuela» mi diceva un amico italo-venezuelano e dunque, al momento, entrambi gli scenari rimangono aperti.

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Sissi Bellomo per Il Sole 24 Ore

Gli scontri in Venezuela, ormai sull’orlo di una guerra civile, hanno riportato in tensione il petrolio spingendo le quotazioni del Brent sopra 73 dollari al barile. Il rialzo è comunque rimasto contenuto a poco più dell’1%, insufficiente per rivisitare il picco della settimana scorsa, a 75,60 dollari, record da sei mesi.
Gli ultimi sviluppi nel Paese sudamericano non sono facili da decifrare, ma ieri non ci sono stati incidenti in prossimità di impianti petroliferi. E il mercato sconta già da tempo le drammatiche condizioni in cui è precipitata l’industria estrattiva locale. La produzione di greggio di Caracas è crollata di quasi due terzi negli ultimi due anni e ad aprile secondo stime Reuters si è ridotta ancora, a 800mila barili al giorno.
Juan Guaidò ha promesso ponti d’oro alle compagnie petrolifere straniere per favorire un rapido recupero del settore una volta cacciato il presidente Nicolas Maduro. Ma non è detto che il colpo di Stato abbia successo. E anche se fosse, ci vorrà tempo per riconquistare la fiducia degli investitori. I danni alle infrastrutture sono intanto sempre più gravi. Le sanzioni Usa, che si stanno focalizzando sempre di più sull’export di greggio, sono solo un aspetto delle difficoltà. Per anni la compagnia locale Pdvsa è stata amministrata in modo dissennato e oggi gli impianti cadono a pezzi. I blackout sempre più frequenti e prolungati stanno dando il colpo di grazia anche alle joint venture nella fascia dell’Orinoco, che finora hanno sorretto la produzione: gli upgrader, che servono a trattare il greggio extrapesante, funzionano a singhiozzo e da documenti filtrati alla Reuters sono emerse gravi difficoltà. L’impianto Petropiar, partecipato da Chevron, ha prodotto solo 74mila bg nella prima metà di aprile, contro i 132mila bg di gennaio e a fronte di una capacità di 190mila bg.
Il crollo della produzione venezuelana si somma a molte altre limitazioni dell’offerta di petrolio, che minacciano di infiammare il prezzo del barile, già in rialzo di quasi il 40% da inizio anno. Il mancato rinnovo degli esoneri dalle sanzioni Usa da domani ridurrà ulteriormente le forniture dall’Iran. E l’Arabia Saudita continua a smentire di essere pronta ad aprire i rubinetti con sollecitudine, come pretende Donald Trump: il ministro Khalid Al Falih proprio ieri ha anzi dichiarato alla Ria Novosti che l’Opec Plus potrebbe prolungare fino a fine anno l’accordo sui tagli e che Riad a maggio conta di estrarre ancora «significativamente meno» di 10 mbg.
A tutto ciò si aggiunge il problema della Druzhba. Nel maxioleodotto dalla Russia – che trasporta oltre 1 mbg di greggio Ural, simile alle varietà iraniane – la presenza di sostanze corrosive ha portato a chiudere l’intera rete. I lavori di ripristino sono iniziati, ma la Bielorussia ieri ha avvertito che ci vorranno mesi perché i flussi tornino a regime.

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Paolo Mastrolilli per La Stampa
Il presidente Trump interviene nella crisi venezuelana minacciando di imporre l’embargo totale a Cuba se non smetterà di sostenere il regime chavista. Nello stesso tempo, il segretario di Stato Pompeo rivela che Maduro era pronto a lasciare il Paese ieri mattina, ma i russi lo hanno convinto a restare. Il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, ha lanciato un appello diretto al ministro della Difesa Vladimir Padrino, al comandante della Guardia presidenziale Rafael Hernandez, e al presidente del Tribunal Supremo de Justicia Maikel Moreno, affinché «diano seguito a quanto concordato per l’uscita dal potere di Maduro». Fonti molto vicine al leader dell’Asamblea Nacional dicono però che se queste pressioni non basteranno, la discussione passerà sull’ipotesi di un intervento esterno, giustificabile se il regime chavista attaccasse la popolazione civile o lo stesso Guaidó, riconosciuto da oltre cinquanta Paesi come capo dello Stato nella fase di transizione verso le elezioni.

L’appoggio degli Stati Uniti è arrivato nelle prime ore del mattino. Alle 9 Bolton ha pubblicato un messaggio su Twitter, con cui ammoniva Padrino, ricordandogli che «le forze armate devono proteggere la Costituzione e il popolo. Dovrebbero stare con l’Assemblea Nazionale e le istituzioni legittime, contro l’usurpazione della democrazia. Gli Usa stanno col popolo del Venezuela». Sei minuti dopo, il segretario di Stato Pompeo ha aggiunto: «Oggi il presidente ad interim Guaidò ha annunciato l’inizio della “Operacion Libertad”. Il governo americano sostiene pienamente il popolo venezuelano nella ricerca di libertà e democrazia». Poco dopo anche il vice presidente Pence ha aggiunto la sua voce, rivolgendosi ai manifestanti in spagnolo: «Estamos con ustedes! Vayan con Dios!».
Alle due del pomeriggio Bolton è uscito nel cortile della Casa Bianca per parlare con i giornalisti e chiarire la posizione degli Usa. Come prima cosa ha lanciato il suo appello a Padrino, Hernandez e Moreno, lasciando intendere che Washington ha discusso con loro la cacciata di Maduro, e hanno accettato di favorirla: «È venuto il momento di attuare gli impegni presi. Questa è la vostra ultima occasione, se cacciate Maduro vi toglieremo dalle lista delle sanzioni, altrimenti affonderete con la nave». Quindi il consigliere di Trump ha rivelato che sono avvenute comunicazioni con la Russia, affinché non interferisca con le decisioni del popolo venezuelano, e ha denunciato la presenza di 25mila cubani schierati a difesa del regime. Bolton ha detto che «non è in corso un golpe, perché Guaidò è il presidente ad interim e ha il diritto di chiedere fedeltà alle forze armate». Quindi ha ribadito che l’amministrazione Usa «vuole una transizione pacifica verso la democrazia, ma tutte le opzioni restano sul tavolo», in particolare se Maduro usasse la forza contro i civili. Alcune fonti sostengono che il leader chavista si preparava ad arrestare Guaidò, in vista della manifestazione indetta per oggi, e quindi il presidente ad interim ha deciso di accelerare la sfida, facendo anche liberare il suo mentore Leopoldo Lopez, per avere più forza nel chiedere la sollevazione popolare. Fonti molto vicine a lui dicono che «lo scopo non è mai stato prendere il potere con le armi, ma spingere il regime ad accettare una transizione pacifica verso le elezioni, convincendo le forze armate ad appoggiare questo progetto». Il problema però è che il ministro Padrino, almeno finora, ha confermato la fedeltà a Maduro. Se a questo seguisse la repressione violenta, contro i manifestanti civili, Guaidò e Lopez, i Paesi che hanno riconosciuto il presidente ad interim potrebbero sentirsi giustificati a lanciare un intervento su base umanitaria, per impedire un bagno di sangue.
La situazione sul campo è complessa. Bolton ha denunciato la presenza di 25.000 cubani, che sostengono Maduro e hanno creato i «colectivos» di civili armati per difendere il regime. L’inviato americano Abrams ha detto che ci sono anche elementi di Hezbollah e della guerriglia colombiana Eln. Mosca aiuta Caracas comprando il petrolio, dopo le sanzioni Usa, e i suoi militari avrebbero rafforzato le difese missilistiche gestendo l’installazione di batterie di S-300. 
Il Pentagono ha sempre pronti i piani per operazioni militari e ha portato gli aiuti umanitari al confine con la Colombia. Erik Prince ha proposto di mobilitare i mercenari della Blackwater, ma se l’intervento avverrà, è più probabile che sia affidato a Bogotà o Brasilia, col supporto logistico degli Usa. 


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Franco Venturini per il Corriere della Sera
Stanco di aspettare, il «presidente dell’opposizione» Juan Guaidó ha giocato ieri mattina tutte le sue carte. Sono passati ormai più di tre mesi da quando Guaidó ha sfidato il «presidente del potere» Nicolás Maduro e si è autoproclamato suo legittimo successore. Cinquanta Paesi lo hanno riconosciuto (non l’Italia, ma più per i contrasti tra Lega e 5Stelle che per una vera scelta di politica estera).
Gli Stati Uniti hanno sottoposto il regime al potere a sanzioni durissime. La Russia e la Cina hanno invece difeso Maduro. La popolazione è in miseria, mancano spesso elettricità e acqua ma gli aiuti sono stati respinti. E i militari, soprattutto, non hanno sin qui preso partito contro il potere chavista.
In Venezuela non è più il tempo dell’attesa, deve essersi detto Guaidó. Ecco allora che per la prima volta si sono visti davanti a una base aerea e nelle vie del centro di Caracas piccoli reparti militari con pezzi di stoffa blu attorno al collo e al braccio per farsi riconoscere come anti-Maduro, ecco gli scontri tra manifestanti civili e pretoriani del regime, ecco gli appelli degli uni e degli altri, ecco il pieno appoggio di Washington, del Brasile e dell’Argentina a Guaidó e la Spagna favorevole invece, mentre Bruxelles tace e aspetta, a un processo democratico che porti a nuove elezioni senza l’uso di una forza che in realtà già viene usata.
Si ha l’impressione di una situazione fluida, mentre sono enormi, questo è certo, i pericoli che la mezza insurrezione e la mezza repressione innescano. Un blindato di Maduro che ha investito i manifestanti di Guaidó ha riportato alla memoria la strage della Tienanmen di cui cade quest’anno il trentennale, ed è questo il primo rischio: una rivolta strisciante che diventa guerra civile se i militari davvero si divideranno. Se davvero Guaidó sarà riuscito a portare dalla sua parte unità importati dell’esercito, isolando la guardia nazionale che difende Maduro. Bisognerà aspettare e vedere .
Ma nel frattempo potrebbe prendere corpo un pericolo ancora più grave. Le forze militari americane sono dietro l’angolo e, hanno detto, «non interverranno». Ma almeno cento consiglieri militari russi sono in Venezuela, in attuazione, ha spiegato Mosca, di vecchi accordi con Caracas. Se Washington decidesse di muovere i suoi uomini, saremmo tutti sull’orlo del primo scontro diretto tra forze di terra Usa e forze russe. Putin ha subito convocato il suo consiglio di sicurezza e a Washington si tengono analoghe riunioni. Per scongiurare il peggio, più che per vincere.
E così si torna alle solite domande. Chi ha parlato con i militari, sembra senza successo? Qualcuno è in grado di mediare? Si arriverà a libere elezioni, malgrado gli errori e le colpe di tutti i protagonisti attuali? Molti interrogativi e risposte tutte da costruire. Mentre i venezuelani, questa è l’unica certezza, sono al limite della resistenza e chiedono aiuto.