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 2019  aprile 30 Martedì calendario

I fiori non profumano più

I fiori non profumano più come una volta. Sembra uno dei tanti luoghi comuni (come «non ci sono più le mezze stagioni»), in realtà a sostenerlo è la scienza. 
Oggi i fiori sono più esposti che in passato all’inquinamento che colpisce l’odorosità, riducendo la portata dei loro effluvi. L’ozono costituisce uno stress per l’organismo della pianta, un’aggressione dalla quale si difende emettendo più profumo. Questa maggiore produzione, però, provoca una maggiore dispersione nell’ambiente, riducendo la concentrazione chimica e, di conseguenza, la sua intensità.
Ma c’è dell’altro. È cambiata la coltivazione dei fiori e di fronte alla possibilità di avere una rosa profumata o una rosa resistente, i floricoltori non hanno dubbi: scelgono la seconda. Rende di più sul mercato e permette guadagni più semplici. Lo conferma anche Philippe Hugueney, dell’Institut national de la recherche agronomique (Inra): «Le rose coltivate oggi sono il risultato di incroci tra diverse varietà. L’obiettivo è quello di renderle più resistenti». A farne le spese è proprio la fragranza: «In questo processo avrebbero potuto prestare più attenzione al profumo, ma hanno badato solo alla robustezza del fiore», aggiunge.
Ma profumi e colori a cosa servono? Si tratta, com’è noto, di un efficace stratagemma messo a punto dalle piante per attirare gli impollinatori. Le fragranze dei fiori sono specifiche per ogni pianta e sono costituite da una miscela di piccole molecole volatili che appartengono per lo più a tre gruppi di composti: fenilpropanoidi/benzenoidi, terpenoidi e derivati degli acidi grassi. La concentrazione di ogni singolo composto è determinante: due fragranze diverse possono contenere concentrazioni diverse di composti uguali e uno stesso composto può avere un odore disgustoso a elevata concentrazione e un profumo piacevole a concentrazioni molto più basse.
La fragranza può variare sia quantitativamente che qualitativamente nel corso della vita del fiore e questo in funzione dell’età, dello stato di impollinazione o delle condizioni ambientali, come la temperatura. Smettere di attirare impollinatori, una volta avvenuta l’impollinazione, serve a preservare intatto il fiore fecondato e ottimizza l’azione degli impollinatori attirati solo da fiori non ancora impollinati.
Questa regolazione avviene per diretta modulazione del processo di emissione o per semplice senescenza e perdita delle parti profumate del fiore (petali, stigma o stilo). Di certo è un grande vantaggio evolutivo per una pianta profumare di più quando il proprio impollinatore è più attivo. 
È stato riscontrato spesso che le piante impollinate da insetti attivi di giorno (ad esempio le api) profumano di giorno, mentre fiori visitati da insetti notturni (ad esempio le falene) profumano soprattutto di notte. Si credeva inizialmente che nelle piante impollinate di giorno l’emissione di profumo fosse modulata dalla luce, mentre nelle piante impollinate di notte la regolazione fosse a carico di un orologio biologico indipendente da fattori ambientali. 
Di recente, però, è stato pubblicato uno studio estremamente interessante sulla regolazione circadiana dell’emissione di profumo della bocca di leone, un fiore a impollinazione diurna. La bocca di leone ha un picco di emissione di fragranza durante il giorno (tra le 9 e le 16) in corrispondenza del momento di massima attività del calabrone, il suo impollinatore. Dall’analisi dell’emissione del metilbenzoato (il principale componente del profumo della bocca di leone) in condizioni di fotoperiodo normale (dodici ore di luce e dodici ore di buio), in luce costante, in buio costante e in condizioni di fotoperiodo alterato (luce e buio invertiti) si è dedotta la natura circadiana della sua ritmicità. Tre condizioni sono infatti rispettate: la periodicità circadiana, la persistenza del ritmo in buio e in luce costante, il progressivo adattamento in condizioni di fotoperiodo alterato.
Ma quando sono sbocciati i primi fiori? Secondo uno studio condotto tra Gran Bretagna e Cina, pubblicato sulla rivista New Phytologist da un gruppo di ricercatori coordinato dall’University College di Londra, si va dai 149 a 256 milioni di anni fa: dunque non sarebbero così giovani, come indicato dai fossili, ma neppure così vecchi come facevano ipotizzare le analisi molecolari. 
Spiega il coordinatore dello studio, Jose Barba-Montoya. «Per trovare la chiave giusta per risolvere il mistero, abbiamo analizzato attentamente l’assetto genetico delle piante da fiore e la velocità con cui accumulano mutazioni nel loro genoma». I ricercatori hanno raccolto un ampio database di informazioni genetiche, incluse quelle relative a ottantatré geni di 644 gruppi (taxa) di piante da fiore, e lo hanno confrontato con una vasta serie di resti fossili. Grazie ad un particolare metodo di analisi statistica che sfrutta strumenti presi in prestito dalla matematica e dalla fisica, i ricercatori hanno ricostruito l’origine dei fiori, che risalirebbero al Cretaceo medio o inferiore.