Corriere della Sera, 30 aprile 2019
Ma le mostre sono necessarie?
Il modello ideale resta la fondamentale mostra che Roberto Longhi dedicò nell’aprile 1951 a Palazzo Reale a Milano a Caravaggio. Si intitolava, con squisita semplicità, «Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi»: quaranta opere su un totale delle cinquanta a quel tempo riconosciute come autentiche, mezzo milione di visitatori. Irripetibile per quantità di Caravaggio e per l’attenzione del pubblico. Una tappa critica che modificò per sempre la percezione di un maestro fino a quel momento certo non considerato l’immenso genio di oggi.
Eccoci al 2019. L’universo delle mostre in Italia è lontano da quei vertici. Soprattutto è affollatissimo. Stime non scientifiche ma empiricamente condivise tra direttori di musei, economisti della cultura, organizzatori e critici parlano di diecimila mostre allestite ogni anno nel nostro Paese tra Stato, Regioni, Comuni, Fondazioni, Università, istituzioni estere e private. Tema che apre dibattiti e spaccature. Indimenticabile la lite Milano-Reggio Calabria per il no nel 2014 allo spostamento dei Bronzi di Riace per l’Expo 2015 per la loro delicatezza strutturale. O il recente, mancato trasloco de Le sette opere di misericordia di Caravaggio dal Pio Monte al Museo di Capodimonte per la mostra «Caravaggio Napoli» aperta fino al 14 luglio 2019. Ma nella maggioranza dei casi il traffico è fittissimo.
Testimonia Giuseppe Panzironi, presidente di Apice srl, azienda leader internazionale del trasporto di beni culturali (scelta dalle case d’asta Sotheby’s, Christie’s e Phillips) e che da poco ha portato a Napoli i capolavori di Antonio Canova da San Pietroburgo al Museo Archeologico Nazionale per «Canova e l’antico» aperta fino al 30 giugno: «Cifre esatte sono impossibili, ma ogni anno movimentiamo in Italia e nel mondo forse trentamila pezzi. Ormai il margine di rischio di danni, in termini di sicurezza, delle opere è pari al due per mille. Abbiamo 40 camion specializzati in trasporti su gomma di pezzi alti fino a tre metri e mezzo, poi gli aerei cargo. Per le opere più complesse realizziamo custodie-gusci su misura con lo scanner».
I Musei Vaticani hanno concesso al Louvre il loro unico pezzo di Leonardo ma hanno realizzato una teca iper tecnologica
Basta sfogliare In & Out/ Guida pratica al prestito di opere d’arte, condivisa da Apice, da Axa art, leader nell’assicurazione di beni culturali pubblici e privati, e dallo studio legale Lca. Un protocollo che impedisce azzardi. Lo sanno bene i Musei Vaticani che hanno concesso il loro unico pezzo leonardesco, il San Girolamo, all’attesa mostra di Leonardo al Louvre che aprirà il 24 ottobre: una teca portatile, climatizzata, con una sonda miniaturizzata interna e datalogger esterno, un sistema a carbonio attivo Zorflex per neutralizzare eventuali inquinanti gassosi. Su Leonardo, si sa, è ancora aperto il capitolo L’Uomo Vitruviano, il capolavoro-simbolo leonardesco conservato (e mai prestato) alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, fortemente richiesto dal Louvre per la sua gran mostra. Il fascicolo è ancora aperto, tra ministero dei beni culturali, Venezia e Parigi.
E poi ci sono i costi assicurativi. Mario De Simoni, presidente e amministratore delegato di Ales, è il responsabile delle Scuderie del Quirinale, spazio solo espositivo privo di propria collezione, sul modello del parigino Grand Palais: «Le assicurazioni sono più costose per l’arte contemporanea che per l’arte antica. I capolavori più noti nel mondo non sono utilizzabili sul mercato clandestino. Cosa diversa per l’arte contemporanea. Ricordo i principali pezzi di Rothko, nella mostra al palazzo delle Esposizioni nel 2007, erano assicurati per 70 milioni di euro». Panzironi di Apice aggiunge, solo a titolo di esempio, i 10 milioni necessari «per un bel quadro di Piero Manzoni mentre ogni scatoletta della sua Merda d’Artista va assicurata per 250 mila euro».
Proprio De Simoni, responsabile di uno spazio che vive di mostre, rimanda al saggio di Francis Haskell La nascita delle mostre edito da Skira: «A noi interessa la motivazione di una mostra perché si possa giustificare il sacrificio di un territorio che presta un’opera e lo stress che ogni pezzo può soffrire. Per esempio la ricostruzione corretta dello sviluppo artistico di un autore nel suo arco creativo, o il confronto con i suoi discepoli, o la rivalutazione di artisti non ben compresi, o le scoperte. O la comprensione di un capitolo: penso alle prime mostre sull’arte africana in Europa all’inizio del ‘900. Senza queste motivazioni, una mostra è inutile, anche prescindendo dal ritorno economico e turistico». Condivide Vincenzo Trione, critico (collaboratore del Corriere della Sera), docente di Arte contemporanea all’università Iulm di Milano, autore del saggio Contro le mostre con Tomaso Montanari nel 2017 per Einaudi: «Sono ancora tante le mostre blockbuster che non lasciano traccia perché offrono solo intrattenimento. Ma finalmente qualcosa, anzi molto, sta cambiando. Ricominciano le mostre serie e utili, capaci di reggere il confronto dell’Italia con le grandi rassegne internazionali. Penso alla mostra dedicata ad Andrea Del Verrocchio a palazzo Strozzi a Firenze o l’appuntamento con Antonello da Messina a Palazzo Reale a Milano. Poi il cambiamento è dovuto anche all’inevitabile saturazione da mostromania. Infine, occorre darne atto, è mutato l’approccio dell’attuale ministro per i Beni e le attività culturali, Alberto Bonisoli. Non c’è un “sì” quasi immediato a ogni richiesta di prestito, com’è purtroppo avvenuto in passato».
Ma esistono i casi positivi. Lo testimonia Luigi Ficacci, attuale direttore dell’Iscr – Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, creato da Cesare Brandi nel 1939 e considerato un punto di riferimento mondiale: «Da soprintendente a Bologna ho vissuto due ottime esperienze di prestito. La prima con la Santa Cecilia di Raffaello inviata a Madrid per la mostra sulla “Maturità di Raffaello”. L’accoglienza fu tale che aumentò moltissimo la reputazione e la fama della Pinacoteca di Bologna. Poi il prestito di Guercino dalla Pinacoteca di Cento al Museo di Arte Occidentale di Tokyo che intervenne con un finanziamento a quel museo dopo il terremoto del 2012. Un capitolo filologico, intellettuale e storico di livello. Quasi suggerirei un viaggio in Giappone a ogni opera per l’attenzione e per l’incomparabile trattamento tecnico». E oggi? «Io oggi mi occupo della “consistenza materiale e fisica” di un’opera, della verifica tecnica della sua trasportabilità. Ma penso che in troppi casi si fa riferimento a possibili, ipotetici rischi tecnici o conservativi per opporre il diniego a un prestito. E che altrettanto spesso pesa il giudizio critico, a priori negativo, sulla mostra proposta da parte del titolare legale dell’opera, mettiamo il direttore di un museo. In entrambi i casi è un uso improprio di argomenti altrettanto impropri, figli di un pregiudizio inaccettabile».