la Repubblica, 30 aprile 2019
In 10 anni l’Italia ha perso un milione di posto fissi
Un lavoro sfrangiato: intermittente, poche ore, bassi salari. Nel decennio della grande e doppia crisi, l’Italia ha perso e recuperato un milione di posti. Ma di fronte a un milione di occupati a tempo pieno che mancano se ne guadagnano altrettanti a tempo parziale.
Il tasso di occupazione è tornato a quando gli scatoloni della Lehman Brothers non erano nemmeno immaginati. Ma quel 58,6% – peggio di noi in Europa solo la Grecia – racconta storie diverse. Sono esplosi il part-time involontario e la sottoccupazione. Chi lavora vorrebbe farlo per più ore. Ma non succede perché il lavoro non c’è. Si è polverizzato e cristallizzato assieme alla produttività stagnante. Si crea poco, le idee scarseggiano. E i vecchi mestieri si distribuiscono tra chi non è nel frattempo espatriato. Mancano 1,8 milioni di ore lavorate rispetto al 2008. I part-time involontari sono schizzati del 131%, da un milione e 195 mila a 2 milioni e 757 mila. I sottoccupati dell’88%, da 356 mila a 668 mila.
Nel frattempo il Paese invecchia. All’inizio del secolo ogni 100 giovani fino a 14 anni si contavano 130 anziani over 65. Nel 2019, 173. Tra 20 anni, 265. Uno squilibrio devastante per i conti: previdenza, sanità, assistenza. Accentuato dalla palude in cui sono finiti i nostri giovani che quei conti dovrebbero sostenere. Il tasso di occupazione nella fascia 25- 34 anni dal 2007 in poi è crollato dal 70 al 62%. Quello dei padri ultracinquantenni si è impennato dal 47 al 61%. Molti ragazzi hanno conosciuto solo contratti a termine, nelle più varie declinazioni, lievitati nel decennio da 2,27 a oltre 3 milioni, il 29% in più. Mentre quelli stabili galleggiano attorno a 14,8 milioni. Indice che l’extra lavoro creato è precario. Una condizione ormai quasi strutturale in un mercato comunque dinamico, visto il tasso di partecipazione crescente: più persone di prima cercano un posto, gli inattivi sono un milione in meno del 2007, il tasso di occupazione femminile è salito coraggiosamente dal 47 al 49,5%. Ancora basso, ma si muove.
Il lavoro cambia pelle, ma anche questa non è una buona notizia. Nel decennio perduto sono spariti un milione di artigiani e operai. E 362 mila professioni qualificate e tecniche. Mentre avanzano di 861 mila i profili esecutivi nel commercio e servizi e di 437 mila quelli non specializzati. Un dramma per le aziende che alimenta il mismatch: la domanda abbonda, ma non incrocia l’offerta seppur scarna e però mirata. Mancano le competenze, le scuole non preparano al lavoro che c’è, la tecnologia è ancora un oggetto misterioso. Proprio quando alla porta bussano robot e intelligenza artificiale.
«Nei prossimi 15-20 anni il 15% circa dei posti rischia di essere automatizzato e un altro 35% sarà profondamente trasformato, numerose mansioni saranno svolte dalle macchine. Ma l’Italia non è pronta», ragiona Stefano Scarpetta, direttore per l’occupazione e le politiche sociali dell’Ocse. «Il lavoro non lo creano le riforme che pure non sono mancate negli ultimi anni, dal Jobs Act in poi», spiega ancora Scarpetta. «Ma la crescita, gli investimenti e le tecnologie. L’Italia è in ritardo, ha un tasso di disoccupazione doppio della media Ocse (10,7% contro 5,2) e pure sopra la media Ue (6,5%). Ancora più preoccupante quello giovanile: 33%. Un giovane su tre non lavora. Anche qui un dato doppio se non triplo sia della media Ocse ( 11%) che di quella Ue ( 14%). E ancora: i sottoccupati sono raddoppiati in dieci anni. I posti creati nel post- crisi non sono di qualità. Molti imprenditori non se la sentono di stabilizzare e fanno contratti precari. La produttività stagna da fine anni Novanta. I salari sono piatti, quelli reali addirittura diminuiti nel 2017. Il reddito medio 2018 è al livello del 1998. E se l’Europa ora rallenta, l’Italia si ferma in recessione tecnica». Ecco il Paese del Primo Maggio.