Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2019
La crisi dei suini
Novemila allevamenti chiusi dal 2014 ad oggi. Se non è crisi questa: vuol dire una media di oltre quattro chiusure al giorno. Il settore dell’allevamento dei suini in Italia non ha mai conosciuto un momento così difficile, tra calo dei consumi, concorrenza spagnola e prezzi in picchiata, che non coprono neanche i costi di produzione. A marzo il listino della carne suina era ai minimi storici: solo 1,1 euro al chilo nel circuito Dop, il 26% in meno rispetto al 2017. Secondo gli esperti della Cia-Agricoltori italiani, per coprire i costi di produzione e garantirsi un minimo di ricavo gli allevatori dovrebbero incassare almeno 1,6 euro al chilo. Per certi versi, è come la crisi del latte in Sardegna: se produco sottocosto, che produco a fare? Così, gli allevamenti chiudono. E 9mila chiusure appunto sono tante, per un comparto – quello della suinicoltura – che in Italia vale 3,4 miliardi all’anno, cui bisogna aggiungere 8 miliardi di giro d’affari della macellazione e trasformazione.
Preoccupati dei numeri, i rappresentanti degli allevatori hanno chiesto un tavolo urgente al governo, che in prima seduta si è riunito alla vigilia di Pasqua. E che deve trovare una risposta a una crisi che è strutturale. Il motivo? «In Italia – spiega Angela Garofalo, che per la Cia segue il settore zootecnico – l’allevamento dei maiali è Dop-centrico: più del 70% di quello che viene allevato viene venduto ai produttori del Prosciutto di Parma e del San Daniele. Per rispettare il disciplinare, i maiali destinati ai due consorzi devono essere più pesanti e devono rispettare standard di qualità particolari, a cominciare dalla percentuale di grassi. Il che li rende più costosi da allevare». I consorzi, però, si prendono solo le cosce: e il resto del maiale? Tecnicamente, può diventare carne da banco, dall’arista alle costate. Ma gli allevatori italiani fanno fatica a piazzarlo alle macellerie o alla grande distribuzione perché costa troppo. I consumatori preferiscono i maiali più magri, che arrivano soprattutto dalla Spagna, e che appunto sono meno cari: «Coi prezzi di mercato dei mesi scorsi – ricorda Angela Calogero – gli allevatori italiani di fatto vendevano sottocosto. Per ogni maiale venduto, perdevano 50 euro».
Secondo i dati della Cia, l’indice di redditività di un maiale allevato in Italia è di 5,43 euro, contro una media europea di 6,3. E così il nostro Paese, pur allevando oltre 8,6 milioni di capi all’anno, finisce con l’importare carne suina (sia fresca che congelata) dalla Germania, dalla Spagna, dai Paesi Bassi e dalla Danimarca, per un totale di oltre 2,2 miliardi di euro all’anno. Soltanto in Spagna, negli ultimi quindici anni, la produzione di maiali è raddoppiata da 20 a quasi 40 milioni di capi, mentre nel nostro Paese siamo scesi a 8,4 milioni di suini.
Alla concorrenza estera si somma poi il calo dei consumi interni: non solo importiamo di più, ma mangiamo meno carne di maiale. Soltanto nell’ultimo anno, gli acquisti di suino sono diminuiti del 5 per cento.
Nel Decreto Emergenze in agricoltura, che è appena stato votato alla Camera e che ora è in arrivo al Senato, la Cia è riuscita a convincere i parlamentari a far passare un emendamento per il sostegno economico al settore della suinicoltura: «Si tratta di 5 milioni in due anni – racconta il presidente della Cia, Dino Scanavino – non sono molti, ma sono il segnale che la crisi del comparto è entrata sotto i riflettori. Naturalmente speriamo che i fondi a disposizione aumentino».
Da dove deve partire il rilancio del comparto, posto che il sistema di contrattazione dei prezzi deve poter fluttuare liberamente? Per il presidente Scanavino, la prima ricetta è quella di ampliare i consumi creando nuove linee di prodotti: «Bisogna finanziare economicamente la ricerca e l’innovazione – sostiene – i consumatori preferiscono la carne magra dei suini stranieri più leggeri? Allora dobbiamo fare in modo che l’industria della trasformazione inventi nuovi prodotti, dagli hamburger ad altri lavorati, che come base utilizzino invece la carne di suino pesante». Quella che gli allevatori italiani producono per accontentare i consorzi dei due prosciutti Dop, per intenderci.
Ostacolare invece le importazioni dai Paesi concorrenti sarebbe una mossa sciocca: «Tutti abbiamo bisogno che il mercato delle carni sia un mercato aperto – sostiene Scanavino – anche noi italiani, soprattutto ora che si aprono interessanti spiragli in Cina». Già, perché a Pechino, dove i consumi di maiale sono tra i più alti al mondo, la recente ondata di peste suina sta drasticamente diminuendo la produzione interna, con conseguente aumento delle importazioni. Ad oggi, però, l’Italia esporta in Cina solo le parti meno nobili del maiale, testa e piedi soprattutto. Per la mancanza di accordi fitosanitari, invece, non può ancora esportare la carne suina congelata. Che è il vero business: «Ma siamo fiduciosi – dice Scanavino – con Pechino sembra ci sia stata un’apertura».