La Stampa, 30 aprile 2019
Biografia di Ernő Erbstein
Quando si pensa al Grande Torino il ricordo va a Valentino Mazzola, forse il più portentoso campione del calcio italiano. Oppure al commendator Ferruccio Novo, il presidente, il patriarca. A me va a Ernő Egri Erbstein, il demiurgo. Senza Erbstein non ci sarebbe stato il Grande Torino. Senza Erbstein non avremmo conosciuto, perlomeno come lo conosciamo oggi, il calcio della sublime Olanda di Michels e Cruyff né quello del Milan di Sacchi e Van Basten e nemmeno quello del Barcellona di Guardiola e Messi. Erbstein aveva capito e insegnato che una squadra è una comunità e, come ogni comunità, per funzionare necessita di tutti, e che tutti si muovano insieme verso il medesimo obiettivo e in una logica di mutuo soccorso.
«Erbstein era come un filosofo dell’antica Grecia, per il quale l’atleta non è soltanto una macchina, ma una creatura, da considerarsi innanzitutto come tale, umanisticamente intesa. Era un maestro per noi. Da lui ho imparato la più intelligente lezione di calcio, anche se può sembrare a tutta prima un paradosso facile e semplicistico: il giocatore che ha ricevuto il pallone ha finito il suo compito», disse molti anni dopo Raf Vallone, attaccante del Toro, poi giornalista dell’Unità e della Stampa, infine stella del cinema. Il giocatore che ha ricevuto il pallone – intendeva Erbstein – è il giocatore che si è messo nella posizione e nella condizione di riceverlo: non rivendica il diritto di ottenerlo, ma fa in modo di facilitare la scelta degli altri, così che ottenerlo sia ovvio, o addirittura inevitabile. Vale per un passaggio, e vale sempre: per un’istruzione, un impiego, il successo. Il calciatore e il cittadino intelligente fanno coincidere il loro vantaggio col vantaggio collettivo.
Erbstein perfezionò il ritiro precampionato, perché i giocatori si allenassero e familiarizzassero; inventò il riscaldamento prepartita, perché sapeva che non si vince soltanto durante i novanta minuti, ma anche prima e dopo; inventò gli esercizi fisici personalizzati perché una squadra, e una comunità, si fondano sull’uguaglianza ma ciascuno è unico. Inventò i ruoli sovrapponibili e intercambiabili perché un calciatore, e ogni uomo, deve essere poliedrico e sorprendente. Studiava gli atleti, la loro conformazione, la reazione alla fatica, al nutrimento, alla temperatura. Scoprì che in certi periodi dell’anno le squadre meridionali andavano meglio per l’apporto vitaminico di frutta più rara al nord. Non ho mai potuto considerarlo un allenatore qualunque, nel suo mestiere è una scienza e un artista, diceva Novo.
Studiava Spinoza ma soprattutto l’Homo ludens di Johan Huizinga per apprendere le dinamiche filosofiche del giocare. Studiava l’approccio psicologico allo sport e alla quotidianità dei suoi campioni. Si trovarono suoi appunti. «Oggi dobbiamo giocare bene, questo è un imperativo categorico. Siete considerati semidei, non semplici calciatori. Dal maestoso al ridicolo c’è un passo solo». «La vittoria è completa quando non solo tecnicamente ma anche come fair-play si è superiori all’avversario». «Sorridere nello spogliatoio e quando si scende in campo / L’avversario entra duro, l’arbitro sbaglia: sorridere / Sbaglia ancora: sorridere / Segniamo noi: sorridere, sorridere, sorridere / L’avversario ci sfotte, ci offende: sorridere». «Dobbiamo avere il coraggio di non avere paura».
Ho sempre pensato il calcio, e lo sport in generale, in minima parte come una questione di risultato finale, di highlight, moviola, tifo, coro e insulto da stadio. Ho pensato al calcio come messa in scena della vita. È nascere e crescere e morire, è furore e cedevolezza, talento, strategia, intelligenza, disastrosa stupidità, è l’apparizione devastante del caso, è salire per ricadere e cadere per risalire, egoismo e altruismo, poesia ed estetica, disciplina e sciatteria, fortuna e sfortuna, è la capacità o l’incapacità di battersi per sé e per il bene comune, di prendersi le responsabilità o scaricarle, è l’esaltazione e la tragedia, l’eroismo e la viltà, è la paura, la paura della paura, il limite da oltrepassare, è la mostruosa bellezza del fallimento, l’illusione dell’eternità, è saper cogliere l’attimo, è l’attimo che può non arrivare mai, è la nostra sbalordente esistenza messa a repentaglio dal capriccio di un rimpallo, tutto riproposto in forma tambureggiante e parossistica, nel corso di una carriera, di un campionato, di una sola partita.
Soltanto uno sciocco non capisce che il calcio è la rappresentazione allegorica e filosofica dell’eterno romanzo dell’uomo. Mi piace credere di averlo imparato anche da Erbstein, l’allenatore, lo scienziato, l’artista, l’umanista, questo meraviglioso uomo così immerso, nel purissimo bene e nel purissimo male, nella storia tragica e magnifica del Novecento.