La Stampa, 30 aprile 2019
Sulla morte del mulo Iroso
Nome: Iroso. Anno di nascita: 1979. Reparto: Settimo reggimento «Belluno», brigata alpina «Cadore». Numero di matricola: 212.
Fosse stato catturato dal nemico, l’ultimo mulo degli alpini non avrebbe potuto ragliare di più. Gli è toccata in sorte, per fortuna, la pace più lunga della nostra storia e, dopo la naja, una dignitosa pensione. Iroso se n’è andato ieri, anzi «è andato avanti», come si dice per le penne nere, serenamente, di vecchiaia: aveva 40 anni, equivalenti a 120 per un umano. L’aria di montagna, si sa, fa bene ai bipedi, figuriamoci ai quadrupedi.
Era l’ultimo mulo degli alpini ad aver servito, con il basto stracarico su per le mulattiere, addestrandosi a una guerra antica, fatta di marce e fatiche, altro che i computer e i droni e tutto l’attuale hi-tech della morte. Era andato in pensione nel 1993, quando il Ministero decise che di muli non c’era davvero più bisogno e li vendette all’asta. Per lui e per i suoi colleghi, il futuro poco rassicurante era di diventare uno stufato. Ma degli ultimi ventiquattro muli alpini con la matricola «impressa a fuoco all’altezza di 15 mm sulla fascia esterna dello zoccolo sinistro anteriore a conveniente distanza dalla corona del piede», come da regolamento del 1877, dieci si salvarono da quel triste destino gastronomico. Merito del signor Antonio De Luca, per tutti Tony, classe 1946, contadino-boscaiolo a Cappella Maggiore, provincia di Treviso, naja ovviamente fra gli alpini, battaglione «Gemona». Tony i muli li considerava dei commilitoni e non voleva che finissero al macello: ne comprò quattro a un’asta e sette a un’altra.
Iroso era l’ultimo sopravvissuto. Una star, per le penne nere. Lo venivano a trovare, lo coccolavano, si facevano i selfie con lui. Partecipava ai raduni nazionali, l’ultima volta nel ’17 a Treviso, quando fu vegliato da due alpini e con un veterinario di pronto intervento sempre nei paraggi. I quarant’anni, nel gennaio scorso, erano stati festeggiati alla grande, con l’alzabandiera e la fanfara. Era ancora in gamba, nonostante gli acciacchi fisici e morali, forse più questi che quelli. Iroso era diventato cieco da un occhio e aveva sofferto per la morte della sua mula, Gigliola. Raccontano che quando non la trovò più nello stallo abbia ragliato disperato per due giorni. Per alleviargli la solitudine negli ultimi tempi era arrivata Winie, una giovane asina regalata dall’ex campione di ciclismo Marzio Bruseghin. Ma forse siamo noi umani ad attribuire agli animali i nostri sentimenti, sbagliando: loro sono già molto migliori di noi.
Il cordoglio
Intanto ieri, dopo che il presidente dell’Associazione nazionale alpini di Vittorio Veneto, Francesco Introvigne, aveva dato la notizia, si sono moltiplicati i messaggi di cordoglio. «Come tutti i veri alpini, anche il generale Iroso non è morto, è semplicemente andato avanti, per restare sempre nei nostri cuori», ha detto il governatore del Veneto, Luca Zaia.
Fine di una storia antica. I primi muli risultano già arruolati nel 1831 nell’Esercito sardo. E il legame muli-alpini diventa inscindibile fin dalla fondazione del Corpo, nel 1872. Infaticabile, paziente, umile, il mulo è l’inesauribile «jeep a pelo» del Regio esercito. Quando il Corpo d’armata alpino viene spedito in Russia da quello che ha fatto anche tante cose buone, secondo i neo-ignoranti di questi giorni, ha in dotazione soltanto 1.600 automezzi ma ben 4.800 muli, che nei giorni tremendi della ritirata nella neve non hanno bisogno di benzina o di pezzi di ricambio, ma tirano la carretta (letteralmente) e danno calore ai poveri bivacchi. Si calcola che nella Seconda guerra mondiale i muli in servizio nell’Esercito fossero più di mezzo milione. Negli Anni Novanta, nelle cinque brigate alpine ancora esistenti (oggi sono soltanto due), ne restavano 700.
Il mulo fa parte del mito della penna nera. Per la quale resta fortissimo, ancora e sempre, l’affetto popolare. È un misto forse un po’ confuso ma tenace di ricordi, che frulla insieme remoti eroismi e la concretissima riconoscenza per i soccorsi nelle infinite calamità nazionali. Un frullato di fatica e solidarietà, cameratismo e tenacia, condite da una rustica giovialità montanara fatta di bocia e veci, cori e vino rosso. Così ogni adunata degli alpini (la prossima a Milano, dal 10 al 12, nel centenario della fondazione dell’Ana) diventa l’occasione per stare un po’ attaccati a quei tre colori cui, nonostante tutto, continuiamo a essere affezionati. Vedi il cordoglio sincero, anche social, per il «vecio» Iroso. Incredibile ma vero: la Patria la si può anche riconoscere in un vecchio mulo, di professione alpino.