Corriere della Sera, 30 aprile 2019
Marino Massimo De Caro, l’uomo che rubava i libri
Alla fine Marino Massimo De Caro trova il coraggio di confessare l’inconfessabile, taciuto per quattro ore al cronista che già sapeva e per nove mesi, quasi fosse una dolorosa gestazione, a parenti e amici: «Sì, è vero, il 31 luglio 2018 ho tentato il suicidio. E ancora me ne vergogno».
Sergio Luzzatto in Max Fox o le relazioni pericolose (Einaudi) lo ha ribattezzato il «mostro dei Girolamini», ma l’ex direttore De Caro, che ha espiato la pena per aver depredato i tesori della cinquecentesca biblioteca napoletana cara a Giambattista Vico, non ci sta: «Semmai chiamatemi Robin Books. Con il ricavato, pagavo i restauri. Ho rubato 2.000 volumi antichi e ne ho venduti 600. Però li ho fatti recuperare tutti. Ne mancheranno all’appello sì e no una ventina». Hai detto niente.
De Caro è reduce da una settimana tribolata: il mercoledì santo un intervento chirurgico d’urgenza; il sabato santo la scarcerazione. «Mi sento risorto». Due anni passati in vari penitenziari – Poggioreale, Rebibbia, Verona, Orvieto – e cinque ai domiciliari. «A Roma mi hanno tenuto per otto mesi in isolamento, come se fossi al 41 bis. Ho vinto un ricorso per detenzione inumana».
Perché ha cercato di uccidersi?
«Volevo punire il magistrato che mi aveva revocato i domiciliari. In questura l’infermiere del 118 mi ha misurato la glicemia: 470, roba da coma diabetico. Nel reparto carcerario dell’ospedale ho appeso un lenzuolo alle sbarre, l’ho annodato intorno al collo e mi sono lasciato cadere. Mi hanno salvato gli agenti della polizia penitenziaria».
Quante condanne ha subìto finora?
«Ho perso il conto. Un anno per il furto di una dozzina di volumi nell’abbazia di Montecassino. Un anno e 4 mesi per 30 libri presi dall’Osservatorio Ximeniano di Firenze. Un anno per gli antichi erbari trafugati dalla biblioteca del ministero dell’Agricoltura. Meglio accusarsi di un reato continuato, quando ti considerano colpevole a priori: almeno ottieni lo sconto di pena. Prima del mio arrivo, nell’istituzione napoletana mancavano 1.700 volumi su 15.000. C’era addirittura l’inventario degli ammanchi».
Quindi si sentiva autorizzato a rubare?
«La Biblioteca dei Girolamini cadeva a pezzi, divorata dai tarli. Il Mibac aveva promesso 3 milioni di euro. Mai arrivati. Perciò decisi di comportarmi come la direttrice della Trivulziana di Milano, che nel dopoguerra vendette i doppioni per restaurare la biblioteca bombardata. Perché lei poté farlo e io no? Perché era vicina al Pci anziché a Forza Italia?».
Non cerchi di buttarla in politica.
«È stato un reato commesso a fin di bene. A un’impresa pagai lavori in nero per 320.000 euro. Ho esibito la fotocopia di un mio assegno da 6.000 euro dell’agenzia Bnl del Senato, versato all’artigiano che disinfestò le cinquecentine».
Per quale motivo aveva un conto allo sportello bancario di Palazzo Madama?
«Ero il segretario organizzativo di Coesione nazionale. Sono pure salito al Quirinale durante le consultazioni per la formazione del governo Monti».
Torniamo ai soldi.
«Il preposito dei Girolamini mi chiedeva: “Da dove vengono?”. E io: sono ricco. Ed era vero. Ho lavorato quattro anni per i russi. Ero vicepresidente di Avelar energy, messo lì da Jay Haft, socio americano di Viktor Vekselberg, con uno stipendio annuo da 1 milione di euro. Vekselberg nel 2006 voleva allargarsi in Italia. Gli presentai Massimo D’Alema per la sinistra e Marcello Dell’Ultri per la destra».
A D’Alema come ci arrivò?
«Mia madre lavorava con sua moglie, Linda Giuva, alla Fondazione Gramsci».
Nega di aver derubato la Biblioteca Capitolare di Verona, la più antica del mondo, e il Seminario vescovile scaligero?
«Per la Capitolare mi sono autodenunciato. Era il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene del 1605, ispirato da Galileo Galilei. Mi serviva per scrivere questi due tomi sul grande astronomo pisano». (Me li mostra). «Dal Seminario ho sottratto 14 volumi, venduti per 21.000 euro. L’unico furto per interesse. Ma erano abbandonati in uno scatolone impolverato».
E con ciò? Non erano mica suoi.
«Una regola scritta da Francisco Rodríguez Marín nell’Ottocento impone ai bibliomani d’impossessarsi dei libri in cattivo stato di conservazione».
L’Associazione librai antiquari la definisce «abile manipolatore di persone».
L’ammissione
Ho sottratto 2.000 tomi antichi, 600 li ho venduti Li ho fatti recuperare tutti, tranne una ventina
«In tutti i processi la Cassazione ha sancito che sono credibile nelle dichiarazioni rese contro me stesso e altri».
Nel 2016 fu arrestato per non aver pagato la spesa all’Esselunga di Verona.
«Metà pagata, metà no: 48 euro, mi pare. Ero ai domiciliari. Stavo alla cassa quando mi telefonò l’assistente sociale. Soffro di attacchi di panico e uscii a prendere aria. Un vigilante mi prese per il collo. I filmati della videosorveglianza dopo 24 ore erano già stati cancellati».
È sicuro di non essere cleptomane?
«Sono sicuro di esserlo per i libri. Una forma di dipendenza, una malattia».
Come divenne direttore della Biblioteca dei Girolamini?
«Precisiamo: a titolo onorifico. Il conservatore padre Sandro Marsano sapeva che ero consigliere di Giancarlo Galan, ministro dei Beni culturali, e mi cercò. Ero stato consulente di Galan anche al dicastero dell’Agricoltura, segnalato da Dell’Utri».
Che rapporti aveva con quest’ultimo?
«Mi fu presentato nel 2000 alla Mostra del libro antico di Milano da un libraio, Filippo Rotundo. Gli avrò regalato una settantina di tomi. Me ne pagò solo due, per un importo di circa 20.000 euro».
In un’intercettazione, Dell’Utri le chiede: «Massimo, fammi il prezzo».
«Non per i due volumi del Vico. Gli dissi che provenivano da un antiquario, invece erano dei Girolamini. Glieli donai».
Che cosa ottenne in cambio?
«Niente. Guardi che avevo una stanza nel suo ufficio di Roma e dormivamo nello stesso hotel, l’Eden. La sera si cenava insieme. Nei weekend ero spesso ospite nella sua villa sul lago di Como».
Perché falsificò il «Sidereus Nuncius» di Galileo, pubblicato nel 1610?
«Per prendere in giro la comunità scientifica. Lo feci stampare con il torchio a mano, su carta ottenuta dagli stracci per imitare la filigrana antica. C’impiegai tre anni e mezzo. Rotundo me lo pagò 150.000 dollari e lo rivendette per 450.000 a Richard Lan, un collega di New York. Lo Smithsonian Institution lo vorrebbe comprare come il miglior falso mai eseguito al mondo».
Adesso come se la passa?
«La Corte dei conti vuole da me 19 milioni di euro, che non ho, per 270 incunaboli del 1400. Peccato che ai Girolamini ne fossero inventariati solo 94 e che 78 di essi risultino tuttora al loro posto. Mi hanno confiscato casa, quadri, mobili, oggetti d’arte, conti correnti».
Quindi come campa?
«Sono ospite di mia madre a Orvieto. Mi passa la paghetta: 10 euro a settimana. Ma va bene così. Da nullatenenti si vive meglio. Spero di tornare a Verona da mia moglie e di riavere un lavoro».
Nient’altro?
«Non voglio trovarmi mai più vicino a un libro antico. Mi faccio paura».