29 aprile 2019
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Biografia di Lilli Gruber
Lilli Gruber (Dietlinde G.), nata a Bolzano il 19 aprile 1957 (62 anni). Giornalista. Conduttrice televisiva. Politico. Ex parlamentare europeo (Uniti nell’Ulivo, 2004-2008). «Non sono una giornalista faziosa, ma progressista» • «Non una famiglia qualsiasi, la sua, bensì una grande e illustre discendenza di proprietari terrieri» (Isabella Bossi Fedrigotti). «Vengo da una famiglia di imprenditori, cattolica, certo non di sinistra. Borghesia illuminata, però: tollerante, aperta. Qui hai le tue radici, mi hanno detto, da qui potrai partire per il mondo» (ad Aldo Cazzullo). «Il papà, Alfred Gruber, era un imprenditore edile di Cortaccia, paesino appollaiato su un altopiano della Valle dell’Adige; la famiglia della mamma, Herlinde Deutsch, nata a Brunico, aveva piantato le radici a Egna, 25 chilometri a sud di Bolzano» (Franco Recanatesi). «“È un antico nome germanico, il mio. Tra l’altro, nessuno mi ha mai chiamato così. Ogni tanto chiedo alla mia mamma come mai mi abbia dato questo nome”. Già. Come mai? “Sua zia, Tante Auguste, che era una germanista, le suggerì dei nomi, credo ispirati alla saga dei Nibelunghi: mia sorella si chiama Friederike, mio fratello Winfried. Dietlinde vuol dire ‘colei che guida i popoli’: io ho condotto solo i tg. Ma, fin da piccole, io e mia sorella eravamo Lilli e Micki”. Che tipa era Lilli da bimba? “Curiosissima. Ho avuto un rapporto molto stretto con mio padre. Tutti e tre siamo stati allevati con un’educazione austroungarica. A scuola dovevamo essere bravi, durante l’anno scolastico non potevamo leggere i fumetti, la televisione si guardava fino al Carosello”. Proibito uscire da adolescente? “In questo sono stata avvantaggiata, perché ero la più piccola. È stata mia sorella a fare da rompighiaccio”. Una volta in cui l’ha fatta proprio grossa? “A quattro anni e mezzo sono scappata di casa. Era il tempo dei primi sequestri, e a mia madre per poco non venne un colpo. Quando mi ritrovarono dopo un’ora, dissi che ero andata a comprare la ‘nane’, la banana. Le presi di santa ragione”» (Barbara Romano). «Scuole? “Prima le Piccole figlie di san Giuseppe, e poi le suore Marcelline. Ho pure pensato di voler fare la suora”. Quando? “A otto anni. Mi passò subito”» (Vittorio Zincone). «Quando la famiglia, per esigenze di lavoro, si trasferì a Verona, la totale ignoranza dell’italiano e il cognome teutonico le procurarono problemi seri» (Recanatesi). «Il momento più duro è stato alle elementari. “Immagina una bambina, che parla solo tedesco, che si ritrova in un mondo tutto diverso, spedita a scuola tutti i giorni, nella città di Romeo e Giulietta, anche in costume tirolese”. Anche tuo fratello? “Lui ancora più sfortunato di me: con i knickerbocker di pelle corti”. E non era facile in quegli anni. “C’erano ancora le ferite della guerra. […] Nell’aula della terza elementare, in un giorno che non scorderò mai, entrò una suora che ci raccontò quanto fossero cattivi i tedeschi, che uccidevano dieci italiani ogni loro commilitone morto, e poi con il grasso dei loro cadaveri facevano il sapone. […] E nella classe, improvvisamente muta, una compagna, mi puntò il dito addosso, esclamando: ‘Anche tu, Gruber, sei una di quelli!’”. E avevi anche il problema della lingua. “Un giorno, all’asilo, dopo sole tre settimane, la suora maestra chiamò mia madre e le disse: ‘Guardi che, se a casa continua a parlare a sua figlia in tedesco, Lilli non riuscirà mai a imparare l’italiano’”. E tua madre cosa rispose? “‘Sorella, non so quando Lilli imparerà l’italiano, né come. Ma sono sicura di una cosa. Quando lo parlerà, lo farà di certo meglio di tutte le altre’”. […] Tuo padre Alfred era un imprenditore. “Un uomo bello come il sole, severo, ma per i suoi tempi molto moderno. […] Avevo 10-11 anni, quando spiegò a me e a mia sorella come avveniva la riproduzione, disegnando su fogli bianchi il cammino degli spermatozoi. […] Fu una sorpresa, ma salutare”. Fu sempre lui a far sfumare in te l’idea di prendere i voti. “Uomo illuminato: a 16 anni mi mandò a Londra da sola”. Un trauma? “Era la Gran Bretagna della Swingin’ London: i Beatles, i Rolling Stones, la liberazione sessuale e la minigonna. Entrai pure in un cinema porno”» (Luca Telese). «Dalle Marcelline alla Swingin’ London. “Non le dico l’impatto. Quando arrivai, la padrona di casa disse: ‘Se porti in camera dei ragazzi, che siano perbene’”. Non era abituata? “La prima notte, pensai: ‘Ma dove sono finita?’”. Lei aveva venti anni nel ’77. “Non ero gruppettara, ma contestavo mio padre. Lui, tra l’altro, mi avrebbe voluta in azienda”. E lei si buttò nel giornalismo. “Il primo articolo è stata un’intervista a un ragazzo handicappato sull’Adige. Poi grazie a un amico di mia sorella feci un colloquio a TeleBolzano. Mi facevo un mazzo così: ore di camminate per raggiungere manifestazioni sudtirolesi sui pizzi delle montagne, inchieste sulla verginità. Una rumba”» (Zincone). «Il tuo primo maestro, Silvano Faggioni, caporedattore di TeleBolzano. “Mi spiegò: zero chiacchiere, niente politichese, le notizie prima di tutto. Lo risento ancora oggi, ogni volta che facciamo la scaletta di Otto e mezzo”» (Telese). «In Rai, quando ci arriva? “Dopo aver fatto l’esame da giornalista a Roma. Altra esperienza traumatica. In mezzo ai 450 candidati sembravo la donzelletta che vien dalla campagna. Tornata a Bolzano, il bivio”. In che senso? “Mi arrivarono due proposte di assunzione: il Tg3 regionale e il quotidiano Alto Adige. All’epoca consideravo la carta stampata più seria”. […] Alla fine, chi la convinse? “Tra gli altri, Goffredo Parise. […] Ci mettemmo a chiacchierare dopo un’intervista. Mi disse: ‘Guarda che la tv è il mezzo del futuro. E tu la fai bene’. Andai prima a Sender Bozen, il canale in lingua tedesca, e poi al Tgr”» (Zincone). «“Il salto a Roma, lo devo ad Antonio Ghirelli, che, quando nell’86 arrivò al Tg2, si chiese perché in video comparissero sempre e soltanto facce maschili: setacciò le sedi regionali in cerca di un volto femminile, e fui invitata a presentarmi anch’io. Partii da Bolzano un torrido sabato di luglio con un paio di cassette sotto braccio, da mostrare al direttore. Ne guardò una per dieci minuti, e poi disse: ‘Gruber, lunedì lei incomincia’”. E lei cosa ha fatto? “Sono corsa fuori a comprarmi una giacchetta per andare in video, prima che chiudessero i negozi”» (Bossi Fedrigotti). «“Mi diceva: ‘Tu si n’animale televisivo’. E io: ‘Prego?’. E lui: ‘Tu si ’na bella siggnora austriaca’. Mi mise a condurre il tg di mezza sera e quello di mezzanotte. La mattina si guardava le cassette e mi faceva le pulci”. La prima diretta? “Pensavo di morire. Di svenire, di inciampare, di perdere la riga sul foglio”» (Zincone). «Antonio Ghirelli […] ti chiese: “A che partito appartieni?”. “Gli risposi: ‘A nessuno’. Era la verità”. E lui? “Sorrise e disse: ‘Allora devi essere figlia di un invalido di guerra’”. Sei la stata la prima donna a condurre un tg in prima serata. “Fu grazie ad Alberto La Volpe, nel 1987. Prima c’erano solo tre maschi. Per loro fu uno choc”» (Telese). «Si ricorda le emozioni e anche le riflessioni di quel momento? “Mi ricordo soltanto la grandissima paura e la notte precedente, insonne. Come sempre nelle prove importanti della mia vita, ho avuto grandi timori ma anche grandi motivazioni ad andare avanti, a sfidare me stessa e a crescere”» (Luca Bernasconi). «A Lilli la conduzione non bastava. La sua passione erano gli esteri, viaggiare, raccontare il mondo. Fu mandata nell’88 a seguire il caso di Kurt Waldheim e nell’89 la caduta del muro di Berlino. In quell’anno il governo degli Stati Uniti le offrì un viaggio individuale di un mese per approfondire il giornalismo, il sistema politico americano, la condizione delle minoranze e delle donne. Lilli tornò in Italia con una montagna di appunti e un trofeo che tuttora custodisce gelosamente: il “Blue Book” della Cbs, una sorta di prontuario delle regole, deontologiche e pratiche, del mestiere di giornalista. Pochi mesi dopo, Bruno Vespa la chiamò sulla nave ammiraglia, il Tg1: conduttrice del tg delle 13,30 e inviata di politica estera. […] Il Tg1 della sera, […] glielo consegnò Demetrio Volcic, nominato direttore nel 1993, proprio l’anno in cui Lilli vinse la prestigiosa William Benton Fellowship della University of Chicago. […] 1993-2004: undici anni al Tg1 da primadonna, tante battaglie, 13 direttori. […] “Sono stati anni esaltanti e anni difficili. Di grandi gratificazioni, ma anche di grandi rinunce. Nel 1994 ero nel direttivo Usigrai. Carlo Rosella, direttore, mi propose un aumento di stipendio che decisi di rifiutare visto il ruolo sindacale che ricoprivo. Dovevo impegnarmi anche a scansare trappole e marchette. E a dimostrare che le simpatie per il centrosinistra non incidevano sulla mia professionalità”. Però è difficile immaginarti d’amore e d’accordo con Bruno Vespa… “Dopo avere avuto un padre come il mio, figuriamoci se poteva impressionarmi l’autoritarismo di Vespa. Abbiamo conosciuto momenti burrascosi, ma devo dargli atto di una grande professionalità e di non avere mai evitato il confronto. Il problema grave si manifestò quando Bruno pronunciò quella celebre frase: ‘L’editore di riferimento del Tg1 è la Dc’. Cioè Forlani. Esplose una rivolta redazionale, che venne soffocata solo dalle sue dimissioni”» (Recanatesi). Nel frattempo, continuava a vestire anche i panni di inviata all’estero. «I suoi servizi raccontano la guerra nell’ex Jugoslavia, il crollo delle Torri Gemelle, la guerra del Golfo, il conflitto in Iraq e in Afghanistan, i viaggi del Papa. La passione per la notizia la porta a mettere nero su bianco le esperienze dai punti caldi del pianeta, e, negli anni, prendono corpo libri che scalano puntualmente le classifiche» (Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi). «Io non mi sono mai montata la testa, ho sempre tenuto un basso profilo, […] però anche lo stipendio e l’orgoglio hanno la loro importanza, per cui presi carta e penna e scrissi al presidente Roberto Zaccaria e al direttore generale Pier Luigi Celli: “Signori, come mai, se anche in base a un vostro sondaggio io risulto la numero uno, vengo trattata come poco competente sia come salario sia come avanzamento di carriera?”. Celli mi chiamò e prese tempo. Dopo un mese mi promosse caporedattore ad personam e mi concesse un aumento di stipendio assorbibile. E così, con questo grado e questo stipendio, sono uscita dalla Rai nel 2004». «Nel 2004, dopo aver denunciato gravi ingerenze della politica sulla stampa, decide di voltare pagina e si candida, tra le fila della coalizione Uniti nell’Ulivo, per il Parlamento europeo, dove viene eletta con ben un milione e centomila preferenze. L’esperienza maturata sul campo mediorientale si rivela utile per i suoi impegni parlamentari a Strasburgo: presidente della Delegazione per le relazioni con gli Stati del Golfo, compreso lo Yemen; membro della Conferenza dei presidenti di delegazione; della commissione per le Libertà civili, la giustizia e gli affari interni; della delegazione per le relazioni con l’Iran. “Ho lavorato con costanza e con soddisfazione”, spiega la Gruber ai giornalisti quando nel 2008 decide di rinunciare anzitempo al seggio europeo, “lasciando cadere le proposte professionali che, di tanto in tanto, mi venivano rivolte. Ma, ora che la legislatura europea volge al termine, credo si possa concludere anche la mia esperienza di giornalista prestata alla politica”. Archiviata quindi l’esperienza parlamentare, Lilli Gruber torna al giornalismo e prende il timone della trasmissione Otto e mezzo su La7. Timone che tiene saldamente tra le mani anche oggi. Con una parentesi nel 2014, quando la sua proverbiale forza viene meno e, colta da un malore improvviso, è costretta a saltare per un mese l’appuntamento quotidiano. Dopo il periodo di riposo assoluto imposto dai medici, torna in video tranquillizzando i fan: “Il mio lavoro mi appassiona tanto e capita che esageri. Lo dico a tutte le donne che fanno il triplo, quadruplo lavoro: ascoltatevi e delegate un po’ di più, soprattutto ai vostri uomini. Noi abbiamo un dovere nei confronti del nostro corpo, dobbiamo rispettarlo e non pensare che possiamo abusare della nostra forza fisica senza conseguenze”» (Balzarotti e Miccolupi). «Dopo dieci anni di programma, hai una concorrente donna, e fissi addirittura il record. “Non è retorica dire che la concorrenza aiuta. Barbara Palombelli è stata uno stimolo, come Maurizio Belpietro e Paolo Del Debbio, ed è bravissima”» (Telese) • Vari libri all’attivo, numerosi dei quali incentrati sulle sue esperienze da inviata e da politico (Quei giorni a Berlino. Il crollo del Muro, l’agonia della Germania Est, il sogno della riunificazione, I miei giorni a Baghdad, L’altro Islam. Un viaggio nella terra degli sciiti, Chador. Nel cuore diviso dell’Iran, America anno zero. Viaggio in una nazione in guerra con se stessa, Figlie dell’Islam. La rivoluzione pacifica delle donne musulmane, Ritorno a Berlino. Il racconto dell’autunno che ha cambiato l’Europa). Negli ultimi anni ha invece approfondito la storia della sua famiglia e della sua terra, nella trilogia composta da Eredità: una storia della mia famiglia tra l’impero e il fascismo (2012), Tempesta (2014) e Inganno: tre ragazzi, il Sudtirolo in fiamme, i segreti della guerra fredda (2018), tutti pubblicati presso Rizzoli • Sposata dal 2000 con il giornalista francese Jacques Charmelot, senza figli. «Galeotta fu la guerra in Iraq… “Sì, io e Jacques ci siamo incontrati la prima volta nel ’91 a Bagdad, però non eravamo liberi né io né lui”. Cosa la colpì di lui? “La sua solarità, il fatto che sia una uomo divertente, che sdrammatizza sempre. Tra l’altro, è un bravissimo inviato di guerra, ho imparato moltissimo da lui. Mi è piaciuto forse anche perché non mi ha mai presa troppo sul serio. […] È un uomo poco tradizionale: a 18 anni è andato a studiare in America e non è mai stato abituato a una donna che si occupasse del sugo o dei calzini. Credo che l’incontro tra due personalità forti ma anche molto autonome abbia fatto sì non solo che scoppiasse un grande amore, ma che durasse nel tempo”. Cosa lo ha conquistato di lei? “Certo non il fatto di essere famosa. Non sapeva nemmeno chi fossi…”» (Romano). «Un giorno hai dato una delle ricette più belle su come deve sopravvivere una coppia. “Litigare dieci volte e chiedere undici volte scusa… Jacques è francese, ma di quelli sopportabili, perché ha studiato negli Stati Uniti. È simpatico e intelligente, un uomo di grande fascino, mi fa ridere, perché, non ci crederai, ma a volte posso essere un po’ pesante”» (Telese) • Laureata in Lingue e letterarure straniere all’Università di Venezia. «Sono bilingue italiano-tedesco, e parlo bene inglese e francese» • «Hai passioni segrete per Bach, Chopin, Mozart. Ma anche Madonna, Tina Turner e Michael Jackson. E, nel jazz, per Miles Davis! “Mi sono formata nel 1977 e oltre al rock ballo anche valzer e tango, se è per questo”» (Telese) • Fervente femminista. «Di donne che non hanno paura di mettersi in gioco c’è bisogno, in un mondo intriso di testosterone. Da Trump a Erdogan e da Orban a Putin, siamo in mano a maschi presunti alfa che distruggono la cultura delle pari opportunità, della pace e anche del semplice buonsenso». «Per arrivare dove sono arrivata ho faticato come un mulo e mi batto perché le donne delle generazioni successive non debbano faticare così tanto. Far entrare le donne nella stanza dei bottoni è una questione minima di giustizia, democrazia e, ormai, anche di crescita economica» • Assente dagli aggregatori sociali. «Non ho profili personali perché non amo esserci a ogni costo: un giornalista non dovrebbe raccontare sui social il proprio privato. Mi fanno paura le persone che riversano sui social gli aspetti intimi della loro vita. È una cosa oscena» (a Pierluigi Diaco) • «Come scrisse un giorno Giancarlo Perna (che della nostra in tivù ha sempre contestato che “appena parlava di Silvio e della destra metteva il broncetto”), Lilli ha avuto un periodo castano (colore originale della chioma, con sfumature tizianesche), uno rosso e uno biondo, successivamente abbandonato per tornare al colore preferito» (Gian Antonio Stella) • «Come fa a “reggere il video” ogni giorno su La7 da anni? Il look sul lavoro è diverso da quello della vita quotidiana? “La prima regola è restare persone normali. Per reggere il video bisogna saperne fare a meno. Poi, dal lunedì al venerdì, conduco una vita quasi monacale: alimentazione sana, esercizio fisico e un po’ di meditazione sono per me indispensabili. Però, nel weekend liberi tutti: l’autodisciplina funziona a patto di sapersi gratificare. Sul lavoro, il look professionale è una dimostrazione del mio rispetto per il pubblico, e lo stile nitido di Giorgio Armani traduce perfettamente, secondo me, questo concetto”» (Paolo Conti) • «Lilli Gruber, ovvero un giornalismo televisivo “al femminile” fatto di preparazione, conoscenza dei temi, esperienza in Italia e all’estero, capacità di fronteggiare il/la potente di turno con decisione e, quando è necessario, con durezza. L’eleganza e la bellezza ci sono, certo, ma non sono l’arma principale di una anchorwoman di riferimento nel panorama televisivo italiano» (Conti). «In un’epoca contorta e rumorosa, il salotto di Lilli aspirerebbe a essere un luogo ideale di conversazione, che sa coniugare l’eleganza con il piacere, la ricerca della verità con la tolleranza e con il rispetto dell’opinione altrui. Però non sempre è così, anzi quasi mai: Otto e mezzo, La7, dal lunedì al venerdì, ore 20.35. C’è del metodo, in Lilli. Nel suo salotto accedono in tanti, anche i più potenti, segno che ci sono poche barriere d’ingresso, che non si temono domande a tradimento, che la politesse (cortesia) è anche policy (linea di condotta, qui trasformata in una sorta di cortesia istituzionale). Lilli non si espone mai, preferisce il gioco di sponda. Il suo pensiero emerge dai sorrisetti di complicità e d’intesa, da certe smorfiette, dagli “umh!” con cui esprime diffidenza e cautela. Fra i suoi ospiti ne sceglie sempre uno cui affidare il suo consenso. […] A lei, senza dare troppo nell’occhio, piace stare sempre a sinistra di chi è a sinistra. “Lilli la Rossa”, la chiamavano in Rai. Per farle dire qualcosa di suo, bisogna provocarla, farla uscire dai gangheri (comportamento, per altro, che un gentiluomo non farebbe mai). Allora si esprime, altrimenti allude: sorrisetti, smorfiette, “umh!”. Per dare più corposità al suo pensiero, Lilli si avvale del Punto di Paolo Pagliaro, bolzanino, come lei. […] Al punto, Lilli aggiunge le virgole» (Grasso). «Lilli ha un’ideologia? Certamente, come tutti. Diciamo che il suo è un sinistrismo ben temperato dall’Auditel. […] Perché Lilli fa le boccucce? È una civetteria. Perché presenta anche libri? È una dolce paraguru, come tanti altri conduttori» (Grasso) • «Ha una capacità innata di attrarre dispute serissime e frivolissime sulla sua persona: a metà degli anni Novanta, il Polo la inserisce in un elenco di giornalisti faziosi che vanno allontanati dal video. Contemporaneamente, le immagini di Gruber in topless in Sardegna costano a fotografi ed editori molte scuse e un risarcimento. Mentre è inviata in Iraq, nel 2003, si innescano altre due polemiche: una, estetica, sulle pashmine e sulle mise eccessivamente griffate per un teatro di guerra; l’altra, più dura, sul fatto che la giornalista del Tg1 chiama “resistenti iracheni” quelli che il governo Berlusconi condanna come terroristi. […] “Non ho mai avuto una tessera”. Ma era nel sindacato. Ha mai ricevuto pressioni? “Non direttamente dai politici. Semmai, dai direttori. Una volta, Alberto La Volpe mi disse che ero stata un po’ troppo incalzante con Gianni De Michelis. Un’altra, Bruno Vespa mi torchiò perché ero stata troppo critica con l’allora premier Giuliano Amato. Andai da Amato per chiedergli se aveva avuto la stessa sensazione. Mi disse di no. Riferii a Vespa. In Rai spesso si è più realisti del re”. […] “Ho incontrato più politici di professione in Rai che in Europarlamento. Molti hanno notevoli capacità atletiche, che permettono loro di saltare il fosso al momento giusto”» (Zincone) • «Quando la colse il sacro fuoco del giornalismo? “Già alle elementari la mia mitica suor Rosita mi diceva che scrivevo bene. Sapevo di voler fare un lavoro creativo, ma che avesse un impatto sociale. Ho avuto anche fortuna”. […] “Il fatto di mettermi di sbieco si è standardizzato al Tg2, quando ho lavorato con due telecamere. Per essere in asse con quella di sinistra stavo così”. […] Scusi, ma non sta scomoda? “No, perché a scuola sono sempre stata seduta con una gamba sotto il sedere: infatti mi è venuta la scoliosi”» (Romano) • «Far capire che ero anche intelligente è stata sicuramente l’impresa più difficile, perché sono stata la prima donna a condurre un tg di prima serata e quindi la prima donna che andava ad occupare una posizione storicamente e prevalentemente maschile. Per un Paese come l’Italia si trattava di una piccola rivoluzione culturale, visto che in precedenza le donne erano relegate ai ruoli tradizionali, che in televisione erano quelli delle soubrette. […] Il ruolo di pioniera non è stato comunque semplice. Mi ricordo che, agli inizi, quando la gente mi riconosceva per strada, si rivolgeva a me qualificandomi come annunciatrice o presentatrice: io mi arrabbiavo, e tenevo a sottolineare che ero una giornalista e non una speaker. C’è voluto qualche anno prima che mi riconoscessero per la professione che svolgevo». «Cos’è il lavoro per lei? “Un aspetto fondamentale: non potrei mantenermi senza, non ne avrei i mezzi. Ma c’è qualcosa di più: fare la giornalista mi consente di tener fede alla mia identità, al mio modo di essere, ai valori in cui credo”. […] Lei si considera una donna di potere? “Se lo fossi stata, probabilmente avrei fatto una carriera di potere all’interno della Rai, cosa che non è successa. E sa perché? Non mi piacevano le regole e le modalità con le quali si poteva andare al potere: per ottenere certi incarichi era necessario appartenere a partiti o a gruppi di interesse. Oggi sento di contare più di ieri: ho sessant’anni, trentacinque di professione, un percorso lineare e trasparente, ho sempre lavorato tanto e molto volentieri. Ho un’etica del lavoro prepotente, quasi protestante: questa è stata e sarà la mia forza, il mio unico potere”» (Diaco). «Sarò per sempre grata ai miei genitori, che mi hanno insegnato a essere cittadina del mondo».