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 2019  aprile 29 Lunedì calendario

Biografia di Tarcisio Burgnich

Tarcisio Burgnich, nato a Ruda (Udine) il 25 aprile 1939 (80 anni). Ex calciatore, di ruolo difensore. Giocatore di Udinese (1958-1960), Juventus (1960/1961), Palermo (1961/1962), Inter (1962-1974) e Napoli (1974-1977); vincitore di cinque campionati italiani (quattro con l’Inter, uno con la Juventus), una Coppa Italia (col Napoli), due Coppe dei campioni (con l’Inter), due Coppe intercontinentali (con l’Inter) e una Coppa di lega italo-inglese (col Napoli). Militante della Nazionale italiana (1963-1974), con cui fu campione d’Europa nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Ex allenatore, dal 1978 al 2001 (Livorno, Catanzaro, Bologna, Como, Genoa, Vicenza, Cremonese, Salernitana, Foggia, Lucchese, Ternana, Pescara). «In definitiva, sono stato di più in camera con Facchetti che con mia moglie. Si andava in ritiro il venerdì mattina quando c’erano le coppe, poi si dormiva insieme, sia all’Inter che in Nazionale. Ci volevamo bene» • «Fu Armando Picchi a chiamarlo “Roccia”. In una partita con la Spal arrivarono a contendersi il pallone Novelli, un’ala veloce, e Burgnich. Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l’avesse investito un camion. "Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia", andò a consolarlo Picchi, che era un ex» (Gianni Mura) • «Il padre, Ermenegildo, lavorava alla Snia, a Torviscosa. Aveva fatto la guerra del ’15-’18 con la divisa degli austriaci ("era in Marina, a Grado"). "Da bambino tenevo al Toro. Dopo Superga, in classe piangevo e i compagni mi prendevano in giro. Tra noi giocavamo il derby della Mole: le milanesi erano una realtà lontanissima. Facevamo il pallone riempiendo di fieno secco le calze di nylon: erano passati gli americani. Oppure palleggiavamo con le pallette da cricket che lasciavano gli inglesi. Per vedere un pallone vero, ce n’è voluto"» (Mura). «Ragazzino, cominciò a giocare con i fratelli a Ruda, nel profondo Nord friulano, cinque figli in una famiglia di tanto lavoro e poche parole» (Pietro Cabras). «A Ruda non esisteva l’oratorio, ma la squadra del paese. […] Con la mia prima maglia amaranto, nasco mezz’ala, e ho disputato il campionato di Prima divisione e poi l’Interregionale a Romans d’Isonzo (Go), per poi finire a Udine per 3 anni, un anno in Primavera e poi gli altri due in prima squadra» (ad Andrea Nocini). «Burgnich nasce centrocampista, e nelle giovanili dell’Udinese gli cambiano ruolo» (Mura). «L’ascesa parte dal suo paesino, dove lo scova un talent scout dell’Udinese, subito colpito dall’asciuttezza dello stile: nessuna concessione alla platea, l’annullamento dell’attaccante avversario, in anticipo di piede o sovrastandolo negli stacchi di testa, e la battuta lunga di destro a disimpegnare. Il debutto in A è precoce» (Carlo Felice Chiesa). «A 20 anni ero l’unico giocatore di serie A che giocava e lavorava. Alle sette di mattina ero in cantiere, poi con la bici e con il pullman andavo ad allenarmi nell’Udinese. Allora il difensore doveva soprattutto essere umile ed annullarsi» (a Emanuela Audisio). L’esordio nella massima serie avvenne in «una gara che avrebbe stroncato qualsiasi esordiente: Milan-Udinese 7-0, con tripletta di Carletto Galli, doppietta di Gastone Bean e le altre reti di “Pantera” Danova e Fontana. Era il 2 giugno 1959: è evidente che il giovane Tarcisio era schierato con i furlani, e contro c’era il Milan dell’allenatore-umanista Luigi “Cina” Bonizzoni e pilotato in campo dal genio uruguaiano di Juan Alberto Schiaffino. I rossoneri con quella partita sarebbero divenuti campioni d’Italia con una giornata d’anticipo. Fu, quello, l’anno dei 33 gol di Antonio Valentin Angelillo. L’Udinese si salvò comunque» (Alberto Figliolia). «La stagione successiva disputò 7 partite in bianconero che bastarono a farlo convocare nella rappresentativa nazionale per le Olimpiadi di Roma» (Roberto Meroi). «È vero che il Catania, cui serviva un difensore, convocò per un provino lui e Bruno Pizzul e preferì Pizzul? "È vero, ma non me la presi più di tanto, perché poi andai alla Juve"» (Mura). «Su di lui posò subito gli occhi la Juventus. A Torino, anche se conquistò lo scudetto 1960/61, Tarcisio fece solo 13 presenze in campo e venne ceduto al Palermo» (Meroi). «Si ritrova a Palermo. "Io non ci volevo andare – ricorda sorridendo Burgnich –: avevo disputato tredici partite, vinto lo scudetto. Conservo ancora il deferimento perché avevo rifiutato il trasferimento. Facevo anche il militare e andavo su e giù da Roma, noi scapoli alloggiavamo nei locali dello stadio alla Favorita: un caldo terribile e zanzare a volontà. Ma a Palermo sono stato benissimo. È stata un’annata ricca di soddisfazioni". Il Palermo arrivò ottavo, il miglior piazzamento della storia rosanero prima del ritorno in A del 2004. E Burgnich segna il suo primo gol in A. "Sì, proprio a Torino contro la Juventus. Il Palermo vinse 4-2. Indimenticabile". L’altro terzino del Palermo è Vittorio Calvani, che ha una storia singolare. In giugno era stato chiamato dall’Inter, che voleva acquistarlo: doveva giocare con i nerazzurri in amichevole la sera della presentazione di Suárez. Un callo al piede, maldestramente inciso dal massaggiatore con una lametta, impedisce a Calvani di giocare, e salta il trasferimento all’Inter. Che sceglierà Facchetti. Con Facchetti giocherà proprio Burgnich» (Giuseppe Bagnati). «Inizio difficile, poi stagione esaltante. Mi sono divertito, abbiamo giocato un bel calcio e in casa abbiamo battuto l’Inter. Uno a zero, gol del brasiliano Fernando, un buon giocatore. Il Mago Helenio era convinto di fare sfracelli. “Siamo i più forti, non ci sarà partita”, diceva. Invece le hanno prese. […] Siamo arrivati ottavi, con trentacinque punti: la Juve quell’anno ne ha fatti ventinove. […] A fine campionato siamo partiti per l’America, in tournée: ingaggio tremila dollari. La prima della mia vita. Abbiamo fatto un volo che non finiva mai. Siamo atterrati in Scozia, dove è salita una squadra. Poi in Germania ne abbiamo imbarcata un’altra. A New York abbiamo giocato una serie di amichevoli, e quelli della comunità siciliana diventavano matti, erano felici. Il Palermo negli Stati Uniti: bellissimo. Abbiamo fatto una grande sfilata a Little Italy» (a Germano Bovolenta). «Con il Palermo andammo a New York a fare una tournée e mi sono fatto male al ginocchio. Proprio in quel periodo è venuta la proposta dell’Inter. Ho avuto paura che rinunciassero per questo infortunio. Sono andato preoccupato all’Inter. Invece in nerazzurro ho vissuto dodici anni meravigliosi» (a Walter Veltroni). «"Herrera avrebbe preferito Facca del Lecco o Ardizzon del Venezia: a volermi fu Allodi", ricorda Burgnich. Inizia l’epopea della grande Inter. "Herrera ha cambiato la mentalità del calcio in Italia, ha introdotto il professionismo: prima ci si allenava tre volte a settimana, da quando arrivò lui tutti i giorni. Lui c’era già da due stagioni all’Inter". […] Prima stagione all’Inter e subito scudetto, era già successo alla Juve: Burgnich è uno che porta bene» (Bagnati). «A Milano Tarcisio Burgnich divenne inamovibile terzino destro dei nerazzurri per ben 12 stagioni di fila, conquistando 4 scudetti, vincendo due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Con l’altro interista Giacinto Facchetti (a sinistra) formò la coppia fissa di terzini della nazionale italiana. Esordì in maglia azzurra a Roma il 10 novembre 1963 contro l’Urss, in una partita valida per le qualificazioni agli Europei del 1964. Quella fu la prima delle 66 partite giocate da Burgnich con l’Italia maggiore. Ancora a Roma, il 10 giugno 1968, fu protagonista della vittoriosa partita di finale agli Europei (2-0 contro la Jugoslavia). Non andò bene, invece, la finalissima della Coppa Rimet a Città del Messico del 21 giugno 1970, persa contro il Brasile (1-4), dopo la splendida e memorabile Italia-Germania (4-3) di quattro sere prima. Toccò a lui tentare di marcare un Pelé in grande forma. Dopo 358 partite di campionato con l’Inter, nel 1974 Burgnich venne ceduto al Napoli: in Campania chiuderà la sua carriera agonistica dopo tre stagioni, 84 presenze e la conquista di una Coppa Italia e una Coppa di Lega Italo-Inglese con la maglia partenopea» (Meroi). «Ho voluto molto bene all’Inter, e ho sofferto quel giorno ad Appiano, quando Janich del Napoli mi ha detto: “Adesso sei dei nostri”. Come, dei vostri? Mi avevano ceduto, senza dirmi niente. Lo sapevano tutti e non lo sapevo io. Certo, avevo 34 anni, non ero più uno sbarbato. Ma ditemelo: ho fatto dodici anni con voi. Poi passa tutto: sono andato a Napoli con un ginocchio malandato, ma ho lavorato bene, credo, altri quattro anni». «A Napoli, con la “zona” di Vinicio, mi sono proprio divertito. Non c’erano grandissimi nomi, ma eravamo uniti, e per un pelo non abbiamo vinto lo scudetto, nel ’75». «"Un’esperienza bellissima: facevo il libero elastico con tre centrali. Vinicio ci faceva applicare il fuorigioco: mi sono divertito tanto". A convincerlo a diventare allenatore è stato Italo Allodi, che lavorava per la Federazione. "La mia prima squadra è il Livorno. In quella città ho ripensato tanto a Picchi: lo stadio era intitolato a lui. Primo anno così così, il secondo sfioriamo la promozione. Ma i soldi erano pochi. Io da tecnico non ho mai cercato nessuno, mi hanno sempre chiamato gli altri. Così, mentre ero a Catanzaro, si fa vivo Fraizzoli, che mi voleva all’Inter. Ma avevo già dato la parola al Bologna"» (Bagnati). «Quando ero al Como, il dottor Berlusconi mi chiamava per lamentarsi che non facevo giocare Borghi. Gli risposi: io devo salvare la squadra. Nel Bologna ho fatto debuttare Mancini in serie A, a 16 anni». «Dal 1978 (Livorno) fino al 2001 (Pescara) lei ha guidato le squadre dalla panchina. Come mister ha qualcosa da rimproverarsi? “No, ho sempre cercato di fare del mio meglio. Purtroppo, sono sempre caduto in società dove non c’erano quattrini. E se non hai quattrini non hai giocatori, e se non hai giocatori diventa difficile ottenere dei grossi risultati”» (Nocini). In seguito, «sporadicamente viene chiamato dall’Inter per seguire qualche giovane in giro per il mondo, ma quando, nel 2006, Giacinto Facchetti muore, anche Burgnich decide di lasciare i riflettori» (Benedetto Greco) • «Quale ricordo di Italia-Germania? "Non sbagliano a chiamarla ‘partita del secolo’. È stato un incontro alla scapoli-ammogliati: ciascuno tirava fuori l’orgoglio della propria Nazione, non c’erano tattiche. E lo dimostra il fatto che all’Azteca io abbia segnato uno dei pochissimi gol della mia carriera. Raggiungemmo la finale della Coppa del Mondo". E, poi, è arrivato Pelé… "Eh sì, che ci vuoi fare. A Città del Messico non riuscii a fermarlo: era immarcabile per chiunque, la sua carriera l’ha testimoniato. È il più grande della storia del calcio, senz’ombra di dubbio"» (Andrea Pontone). «C’è una foto, ormai storica, in cui c’è Pelé in volo e Burgnich che tenta invano di contrastarlo. È quella del primo gol del Brasile nella finale ai Mondiali del 1970. Finirà 4-1 per i brasiliani. "Sì, Pelé sembra in cielo, ma io sono in diagonale, sorpreso dal cross di Rivelino: ecco perché mi sovrasta tanto". In semifinale c’era stata la leggendaria partita con la Germania. Nel 4-3 c’è anche un gol di Burgnich, quello del 2-2. "Sì, ogni tanto capita che anche un terzino vada all’attacco: andò bene". In quel "capita" c’è tutto Burgnich: segna un gol che passa alla storia, e lui lo liquida come un evento qualunque. Gianni Brera in pagella gli diede 9+, "e non soltanto per il gol". C’è anche un’altra foto emblematica: Pascutti che vola quasi a filo d’erba e colpisce di testa, vano il tentativo di Burgnich. "Sì, fu più bravo di me: tentai pure di prenderla con una mano, ma niente da fare"» (Bagnati) • «Vive in Toscana da quando seguì la donna della sua vita, la signora Rosalba, sua moglie [dal 1963 – ndr], […] che gli ha dato tre figli, Simonetta, Patrizia e Gualtiero» (Cabras) • «L’Inter è stata l’Inter. C’era il Mago, c’erano Giuliano, Armando, Giacinto, Sandro, Mario, Peiró, Suárez, Jair. Il Mago ha cambiato il calcio e ha cambiato le nostre vite». «La mia Inter è una storia irripetibile. Eravamo forti. Eravamo amici. Compatti come un pugno chiuso. E, poi, c’era il Mago. Quando si perdeva, andava davanti alle telecamere e urlava: “Colpa dell’arbitro”. Ma, il giorno dopo, nello spogliatoio ti massacrava. Ricordo un Inter-Benfica. Dovevo marcare Simões, ma in un’azione di gioco mi ritrovai su Eusebio. Risultato: la palla arrivò a Simões, che fece gol. A fine partita, il Mago mi chiuse nella sua stanza e mi disse: “Devi andare anche al gabinetto con l’uomo che devi marcare, chiaro?”» (a Luca Calamai). «Che ricordo ha di Herrera? "Una persona perbene. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte: un po’ di biliardo lo tollerava, ma col suo arrivo è stato come salire su un’astronave del futuro. Aveva istituito per i giocatori dei corsi d’inglese, cinquant’anni fa, e anche di yoga, che lui praticava tutti i giorni"» (Mura). «"Con Herrera ho fatto una gran fatica, perché gli allenamenti erano durissimi. Ai giocatori che ho allenato, dicevo sempre: voi fate la metà di quello che abbiamo fatto noi. E non è vero che andavamo a due all’ora: si marcava a uomo e correvamo di più”. Non ci sta nemmeno quando gli parlano di grande Inter catenacciara. “Macché. Difendevamo io, Guarneri e Picchi. Facchetti stava sempre all’attacco, gli altri non è che dessero una mano in copertura". La delusione più grande? "Lo scudetto perso a Mantova nel ’67 all’ultima giornata in un modo un po’ così… Mi è rimasto sul gozzo per un anno"» (Bagnati) • «Con Facchetti, Tarcisio formava la coppia di terzini più ammirata degli anni Sessanta e Settanta, colonne della grande Inter di Herrera e della Nazionale di Valcareggi, […] cementati dalla stessa filosofia di gioco, di vita» (Cabras). «Povero Giacinto, quante camere abbiamo condiviso. Era una gara a chi parlava di meno. Avevamo tanta roba da leggere: io libri di storia, lui romanzi. “Buonanotte, Tarci”, “’notte, Cipe”, alle 22.30 si spegneva la luce» • «Qual è, di quella esperienza all’Inter, la vittoria che ricorda con più piacere? “Battere il Real Madrid nel ’64 a Vienna, in Coppa dei Campioni. Era una squadra leggendaria, sembrava imbattibile. L’abbiamo battuta”» (Veltroni). «Dinnanzi a noi c’erano Puskas e Di Stefano, due fuoriclasse: è come se oggi Messi e Ronaldo giocassero insieme. Vincere contro la loro squadra per un difensore è il massimo» • «Anche gli avversari (da Pulici a Riva) hanno riconosciuto a Burgnich grande lealtà, unita alla grinta. Eppure si pensa a quegli anni, moviola zero o quasi, come a una specie di Far West. "Lo dice chi non li ha visti. I nostri allenatori ci esortavano a essere corretti, specie in area di rigore. Bisogna dire che gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all’uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti: piedi a martello, entrate a forbice in scivolata, gomitate al viso. Ora parlo da difensore: ho visto gialli e rossi assurdi, è impossibile saltare stando sull’attenti o con le mani dietro la schiena. Alzare le braccia fa parte del saltare. È la gomitata premeditata, la carognata è da punire, non il salto e le braccia aperte. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due incisivi e un premolare. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato. Non ho mai avuto problemi con gli avversari". […] Come si diventa grandi difensori? "Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi, sempre concentrati. L’attaccante è un ruolo di fantasia, il difensore no. Ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l’avversario. Lui vuole fare, tu impedirgli di fare. Uno dei miei primi allenatori, Comuzzi a Udine, mi diceva: con un occhio e mezzo guarda l’uomo, con l’altro mezzo occhio il pallone. […] Io ero un difensore umile e veloce, me la sono cavata anche contro Gento. Chi ha messo più in difficoltà è stato Dzajic, nel ’68. Alla prima partita: poi gli ho preso le misure"» (Mura). «Quando c’era da impostare una marcatura serrata sull’uomo più pericoloso, quella toccava sempre a me. Il cane più rabbioso, più pericoloso, lo affidavano sempre al sottoscritto» • «È stato uno dei più forti terzini della storia calcistica italiana, uno dei più grandi calciatori di sempre del Friuli. Soprattutto, interessa sottolineare l’aspetto morale del personaggio. Burgnich è stato un modello di serietà professionale e correttezza in campo» (Meroi). «Un asfissiante mastino capace di mettere la museruola ai più grandi attaccanti del mondo, mantenendosi in una linea di correttezza che in un difensore significa soprattutto classe. E, di classe, ne aveva tantissima Burgnich, che fu caposaldo della difesa della grande Inter di Helenio Herrera, uno dei reparti più granitici della storia del calcio» (Chiesa). «Era un mastino che non doveva mai mollare il suo osso. Schivo e discreto anche fuori dal campo, classico friulano di silenzi e sostanza» (Vincenzo Cito) • «Il calcio di oggi non gli piace affatto. "Soprattutto i comportamenti. Manca il rispetto. Sono quasi tutti coetanei, magari l’anno dopo si ritrovano nella stessa squadra, invece sceneggiate, mani sul volto. Riva mi ha rotto due denti, ma siamo stati sempre amici. E sapete perché ci sono tanti infortuni? Perché non c’è tempo di recuperare: finito l’allenamento, si pensa a fare pubblicità: noi stavamo a farci massaggiare, a curare i dolorini. Ma quello che mi dà più fastidio sono i trenini, i calci alla bandierina dopo un gol. Ecco, la federazione dovrebbe intervenire. Mi sembrano tante marionette"» (Bagnati). «Le sceneggiate di oggi, non le capisco. Segni? Accontentati. Ma non mancare di rispetto ai tuoi avversari con gesti e scritte. Perché ci sono i ragazzini che ti guardano, e che poi sui campetti ti imitano. Io darei un cazzotto a chi mi si mette a ballare davanti dopo una rete». «A me piacerebbe che ci fosse […] un codice estetico. A volte vedo una sfilata di ragazzi che non sai se vanno a giocare a pallone o a una trasmissione di Maria De Filippi. Le creste, i tatuaggi dappertutto, gli anellini, gli orecchini, le scarpe rosse, gialle, lilla, verdi, azzurre. Più di questo spettacolo, mi fa tristezza un bambino di otto anni pettinato come Balotelli» • «Ho cominciato a otto anni, a Ruda, in Friuli. Volevo diventare un calciatore: ci sono riuscito. Era una passione, è diventato un mestiere bellissimo. Sono stato un uomo molto fortunato, ho avuto tutto e se tornassi indietro rifarei quello che ho fatto. Tutto. La mia è stata, è una bella vita». «Ha rimpianti? "No. […] Quando sono partito da Udine per Torino, non pensavo che dal calcio avrei avuto tutto quello che ho avuto. Da giocatore. Da allenatore, mi chiamavano squadre costruite un po’ alla carlona, sempre nella parte destra della classifica, a volte con un piede nella serie inferiore. Ragionamento dei presidenti: se andiamo in B, è colpa di Burgnich. Era più colpa loro, ma non importa. Se mi giro indietro, sono felice"» (Mura).