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 2019  aprile 29 Lunedì calendario

Intervista alla pilota di F3 Vicky Piria

Sul suo casco c’è scritto My Way: «La canzone di Frank Sinatra che mi lega a mio papà, la ascoltava nei momenti no. Mi piace il senso: ci riuscirò a modo mio». A modo suo, Vicky Piria, la bambina che voleva fare la pilota, ci è riuscita. È l’unica italiana tra le 18 selezionate per le W Series, il campionato di Formula 3 per sole donne all’esordio il 4 maggio in Germania, sul circuito di Hockenheim. Sei gare in tutta Europa seguendo la stagione Dtm.

Montepremi: 1,5 milioni di euro, 500 mila alla vincitrice. Lo scopo: avvicinare (davvero) le signore alla Formula 1. Le critiche: ghettizzante.
Vicky, partiamo da qui?
«Egoisticamente dico: mi danno l’opportunità di correre con una F3, su delle piste belle, nelle migliori condizioni. Che pilota sarei se rifiutassi? Non corro da cinque anni solo perché non c’è la possibilità economica per farlo. Noi donne arriviamo fino a un certo punto, poi per motivi diversi non riusciamo a fare il salto».
Un motivo valido?
«La statistica: siamo meno. Difficile trovare una brava tecnicamente, veloce, che ha lo sponsor, col management e il team. Meglio investire su un maschio di talento, perché una donna di talento non dà garanzie che arrivi. Gap fisici? Colmabili. A velocità siamo uguali».
Il motorsport è maschilista?
«Lo è tutto il sistema. Anche quello della politica. In me tutti vedevano una miniera d’oro: brava, forte e pure bella. Dicevano: se arriva, straguadagno. Ma visto che in F1 le donne non riescono ad arrivare, vuol dire che nessuno se la sente di rischiare abbastanza».
Con le W Series punta alla F1?
«Io punto a fare la pilota professionista che per me è sinonimo dell’essere felice. Ecclestone una volta mi chiese di cosa avessi bisogno. Gli risposi che avevo bisogno di stare in macchina e guidare».
Riassunto delle puntate precedenti?
«Mi chiamo Vittoria, nata a Milano da Piero, 60 anni, calabrese di Scilla, col quale vedevo in tv la F1, lui e anch’io fan di Senna anche se ero piccola, mi ricordo di più le gare di Schumacher. Mamma Daniella ha 55 anni, è del nord di Londra ma non è la classica inglesina con la tazza di tè in mano, venne in Italia per studi e ci rimase per amore. Cresciuta bilingue, dunque il Linguistico. Bisnonni materni originari della Ciociaria, emigrati in Gran Bretagna tra le due guerre, gelatai, mia nonna guidava il furgoncino per distribuirli, forse mi viene da lei la passione per i motori oltre che dai viaggi infiniti in auto con papà. Trasferiti tutti a Perugia dieci anni fa. Ho una Mini scassata. E due fratelli: Paolo di 18 anni, liceo scientifico, Giuseppe di 23 detto Joy, studia Giurisprudenza, per seguire lui sono pilota».
Perché?
«Perché sono una maschiaccia. Da bambina volevo fare sport adrenalinici: horseball che è un incrocio tra basket e rugby sul cavallo, facevo gare ed ero bravina, poi scoprii i motori e li scelsi. Mio padre comprò un kart per mio fratello che aveva 8 anni e io 6. Non avevo mai visto una cosa del genere, feci una scenata per provarlo e dimostrare che anch’io ero brava».
Lo fu subito?
«Mi ricordo un settembre: le luci del tramonto e io che giravo a Rozzano, vicino a Milano. Ero una cosa sola col kart. Cominciai con le prime garette regionali con la mortadella come premio, giravamo come hippy con un mini camper dove mangiavamo l’amatriciana ribattezzata pasta go kart. Adoravo stare in pista: toccare le gomme, mettere il grasso sulla catena, l’odore di benzina. Le ragazzine erano poche e io non avevo un obiettivo. Non spendevamo 50 mila euro all’anno come fanno ora con l’idea di arrivare in F1».
Poi?
«A 15 anni mio padre mi regalò per compleanno un corso in macchina con delle Formula Ford. Lì è iniziato tutto: due anni di Formula Abarth italiana che è la F4 di adesso, firmai per due anni di Gp3 con la Trident ma ne feci solo uno: io con poca esperienza, il team nuovo, le risorse finirono presto. Passai alla F3 europea con Bmw: a Monza mi chiamarono il giovedì per le prove libere dell’indomani. Avevano trovato i soldi. Entravo in macchina col coltello tra i denti: ogni gara temendo fosse l’ultima. Piena di rabbia. Avevo 20 anni, tante pressioni, l’incubo che non ci fossero i fondi. Ho rischiato la depressione».
«Avevo abbandonato l’università, un lavoro a Sky come commentatrice per andare in America dove feci solo due gare, saltò lo sponsor e saltò tutto. Tornai che ero sotto un treno. Io vivevo per le corse. Se non posso correre che faccio, anzi, chi sono? Io so fare solo questo. Di motori non ne volli più sapere».
«Guardai il figlio appena nato di una mia amica e mi dissi: posso avere anch’io un’altra vita. Ricominciai: istruttrice pilota alla Ferrari, dove non volevano donne. Anche se non guidi quando insegni, hai sempre il sedere su 700 cavalli».
Maschiaccia.
«Io ci provo a fare un po’ la femminile mettendo il tacco, ma mi sento limitata, espressa all’80 per cento. È in pista che sono la vera io, una selvatica, me stessa».
Fidanzata?
«No, è un grosso problema, sono un po’ preoccupata. Non vedo uno che mi segua in giro e capisca. Penso di essere troppo difficile, di fare una vita troppo difficile».
La bellezza l’ha più ostacolata o aiutata?
«Non è mai stato un mio problema. Gli sguardi li ho ricevuti, ma mi sono sempre comportata da pilota: le domande giuste agli ingegneri, ai meccanici, e il pregiudizio bella e scema è finito lì. Mi alleno sei giorni su sette e se non lo faccio mi manca».
Cos’altro le manca?
«La libertà di essere imperfetta. Un po’ di semplicità. E la freddezza inglese: sono passionale in tutto».
Cosa le piace delle corse?
«La sensazione che ti dà il giro perfetto. Guidare forte è saper gestire tutti i dettagli e adattarsi prima degli altri. La velocità è ok, ma a 240 in autostrada che paura».
E in pista?
«No, temo di più cadere da cavallo. Feci un incidente nel 2012 a Hockenheim, al via decollai dopo il contatto con un’altra auto. Mi portarono in ospedale in elicottero, una settimana dopo ero in pista a Budapest con gli antidolorifici».
Prima gara vista dal vivo?
«Montecarlo 2009. Piansi quando sentii il rumore della Ferrari di Raikkonen. Due anni dopo ci ho corso anch’io in Gp3, 12ª su 28, il miglior risultato al femminile nel Principato: i saliscendi, il mare, le strettoie, i colori. Monaco ti tira fuori il meglio come pilota. Ma mi piacciono anche Spa, il Mugello e Portimão».
Com’è il suo stile di guida?
«Più aggressivo di un tempo, sempre metodico e pulito. Sono brava nelle frenate. Mi piacerebbe somigliare a Ricciardo, anche se ammiro molto Leclerc. Io sono una perfezionista in una maniera un po’ disordinata. Scrivo appunti delle gare».
Come spiega ai suoi amici i motori?
«Non lo faccio: è un amore inspiegabile».