L’Economia, 29 aprile 2019
Spendiamo per pagare debiti
Il dibattito sui rimborsi ai risparmiatori vittime – più o meno inconsapevoli – delle crisi bancarie, ci ha offerto un straordinario spaccato della visione che di questo Paese sembrerebbe avere l’attuale maggioranza. E non mi riferisco alla pretesa di trasformare in fatti le promesse elettorali anche se visibilmente irrealistiche. C’è chi pensa in buona fede che sia possibile e c’è chi si crede Napoleone: in ambedue i casi c’è bisogno di un valido aiuto esterno. No, mi riferisco alla richiesta – apparentemente in parte sventata – così sintetizzabile: i privati cittadini possono anche violare le norme (in questo caso comunitarie) purché i pubblici funzionari possano non assumere alcuna responsabilità. Un privato senza regole ed un pubblico senza responsabilità. La fotografia dell’Italia del passato evidentemente ancora viva e presente.
In questo quadro – con un governo capace di litigare su ogni punto dell’agenda politica ed altrettanto capace di trovare poi una mediazione perennemente al ribasso su quegli stessi punti – la vita dell’opposizione dovrebbe essere tutto sommato non poi così difficile. L’andamento deludente dell’economia dovrebbe offrire un terreno fertile e la condotta incerta della politica economica dovrebbe fornire argomenti quotidiani per una opposizione che volesse costruire una propria credibilità come alternativa di governo. Ma visibilmente così ancora non è. Perché? Come spesso accade, il dito viene puntato verso la comunicazione. Ma, come i comunicatori sanno bene, è difficile comunicare qualcosa che non c’è o i cui contorni sono sfuocati. Fuor di metafora, la sensazione è che una opposizione che volesse proporre una visione nettamente alternativa del Paese sarebbe assai poco credibile. Come è possibile infatti fare un’opposizione efficace a strategie di politica economica che, in fin dei conti, replicano – forse magnificandole dal punto di vista della comunicazione – le scelte fatte negli anni di governo dalla attuale opposizione? Da questo punto di vista, tutto si riduce infatti ad un sottile distinguo: disavanzi sì, ma solo per investimenti e ricerca. E non – come ha recentemente sostenuto un autorevole esponente governativo – per investimenti, scuola e sanità. Come si vede, un distinguo tanto sottile da essere impalpabile e da rendere afona la voce dell’opposizione.
Tanta spesa correnteDimentichiamo il quinquennio segnato dalla crisi globale, prima, e dalla crisi del debito sovrano, poi, (2008-2012). Sono stati anni, per evidenti motivi, eccezionali. In tutti gli altri casi – almeno per quanto riguarda l’ultimo ventennio – la nostra finanza pubblica ha esibito disavanzi (entrate pubbliche minori delle spese) prossimi, in media, al 3% e sostanzialmente a prescindere. Quale che fosse l’effettivo andamento dell’economia. Si sono fatti disavanzi negli anni buoni (per quel che il termine può significare in Italia) e meno buoni: nel 2006 (in cui si riuscì a crescere – pensate un po’ – del 2 per cento) e nel 2014 (anno di crescita zero o quasi).
E – per chiarezza – non necessariamente per fare investimenti: al netto degli investimenti, si registra infatti nella media del periodo un eccesso di spese correnti sulle entrate non lontano dallo 0,5% all’anno. Se ci fossimo limitati a fare disavanzi per finanziare la spesa in conto capitale ci ritroveremmo oggi con un debito pubblico vicino al 125% (piuttosto che al 135%). Continueremmo ad avere un problema ma forse un po’ più contenuto. Non casualmente, quindi, le elaborazioni del Fondo monetario identificano l’Italia come uno dei Paesi in cui la politica fiscale – anche in ragione dell’elevato debito pubblico – finisce per avere una efficacia anticiclica del tutto trascurabile.
Insomma, lungi dall’essere uno strumento congiunturale i disavanzi sono ormai un nostro modo di essere: le spese eccedono le entrate nella media del periodo un po’ meno del solito 3% anche al netto degli effetti attribuibili al ciclo economico, e – ed è questo il punto – senza una reale protratta tendenza verso il pareggio. Quando questa si manifesta (come negli anni immediatamente successivi alla crisi) dura lo spazio di un mattino: la progressione degli ultimi anni lo chiarisce. E non si tiri in ballo l’onere che sopportiamo per gli interessi sul debito pubblico: i disavanzi primari (spese al netto degli interessi maggiori delle entrate) sono stati, invariabilmente, inferiori agli oneri per interessi. Tradotto: quale che fosse l’andamento dell’economia – buono o meno buono – abbiamo fatto debiti per ripagare non il capitale ma gli interessi sui debiti contratti in passato. Una definizione piuttosto bizzarra di «sacrifici». I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non solo in termini di impoverimento del Paese ma anche in termini di progressiva perdita di autonomia della politica economica.
Keynesiani da asilo nidoMa, per i keynesiani di casa nostra il deficit spending va bene comunque. A prescindere. Nella buona e nella cattiva sorte. Nei giorni di sole e nei giorni di pioggia. Con le vacche grasse e con le vacche magre. Faccio fatica a pensare che John Maynard Keynes abbia mai sostenuto una simile sciocchezza. Ma che cosa abbia sostenuto Keynes è in realtà, tutto sommato, irrilevante.
L’economista britannico è infatti ormai diventato la proverbiale foglia di fico dietro cui si nasconde la incapacità delle classi politiche italiane (a cui i ministri «tecnici» non sono certo estranei) di riportare la finanza pubblica su un sentiero pienamente sostenibile nel medio periodo. La loro disponibilità ad assecondare gli obbiettivi politici del momento piuttosto che gli interessi dei cittadini di oggi (e di domani).
Nessuna meraviglia: anche se ci auguriamo ogni giorno che non accada, è successo, succede e succederà. Ma quel che colpisce è che altrove nel mondo è raro riscontrare su questo punto la uniformità di posizioni della classe politica che si registra in Italia. Sfumature diverse, distinte tonalità, accenti differenti non mancano ma sono largamente coperte dal pensiero unico di un keynesismo – mi scuso – da asilo infantile. Che ha dato un contributo importante se non determinante – forse è arrivato il momento di fare un bilancio – al declino del Paese.
È una uniformità che scivola spesso nell’involontario umorismo. «È scientificamente provato che le politiche degli ultimi anni non hanno funzionato» sentivo dire qualche giorno fa – con voce tagliente e tono che non ammetteva discussioni – da un peraltro ignoto abitante del pianeta dei talk show, acceso sostenitore del superamento della cosiddetta austerità. Come negarlo?
Peccato che si tratti delle stesse politiche di cui si chiede oggi l’adozione. Così come accade agli orologi rotti che segnano l’ora giusta due volte al giorno, così anche a chi non ha la più pallida idea di cosa dice può succedere di dire qualcosa di giusto, sia pure a sua insaputa.