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 2019  aprile 29 Lunedì calendario

Intervista a Federico Faggin

Il nostro mondo, fatto di personal computer, smartphone e Internet, si è sviluppato grazie a due invenzioni: il microprocessore e il touchscreen, vale a dire il cuore e la pelle di strumenti diventati familiari. Federico Faggin, quante persone sanno, in Italia e nella sua Vicenza, dove è nato nel 1941, che quelle invenzioni sono sue? 
«Credo poche, forse gli esperti o chi ha visitato il Computer History Museum di Mountain View. Però è comprensibile. Ho passato la mia vita lavorando dieci ore al giorno, spesso anche il sabato e la domenica, cercando soluzioni a problemi tecnici e scientifici che mi appassionavano. Mio padre raccontava che, a cinque anni, corsi da lui sconsolato: “Papà, voglio inventare delle cose ma sono già state inventate tutte!”. Ho cominciato prestissimo a smontare oggetti per capire com’erano fatti e a costruirne di nuovi con materiali di risulta. Poi, un giorno, vidi un modellino d’aereo che volava e venni folgorato». 
È cresciuto in una famiglia di scienziati? 
«Scherza? Mio padre era professore di storia e filosofia al liceo classico di Vicenza e prese la libera docenza all’Università di Padova. Ha scritto quaranta libri dottissimi e tradotto le Enneadi di Plotino. Mio fratello maggiore studiava Lettere ed era appassionato di storia dell’arte. Vivevano con l’idea che il mondo va avanti troppo in fretta. Si immagini come la prese mio padre quando gli dissi che volevo iscrivermi all’istituto tecnico industriale per imparare a costruire aerei? Una scelta di serie B! Alla fine si convinse perché alle medie non ero brillantissimo, avevo solo voglia di chiudere i libri e mettermi a costruire. Però avevano chiuso la specializzazione in aeronautica e dovetti scegliere l’indirizzo in radiotecnica. Appena diplomato mi assunsero alla Olivetti, l’azienda più all’avanguardia in Italia, e mi resi conto di come girava il mondo. Se hai idee nuove e non sei un ingegnere, è impossibile farti prendere sul serio. Dopo un anno tornai da mio padre e dissi che volevo licenziarmi per iscrivermi all’università, a Fisica. “Sei matto? Guadagni più di me”. Era vero. Temeva che non ce la facessi, perché alcuni dei suoi migliori studenti ci avevano provato e avevano desistito. Mi laureai con 110 e lode». 
Fu allora che decise di trasferirsi in America? Cominciava la fuga dei cervelli? 
«Fu casuale. Ero un ragazzo di provincia e degli Stati Uniti conoscevo poco. Trovai lavoro presso la SGS, un’azienda nella brumosa Agrate Brianza. Avevano la licenza per fabbricare i circuiti integrati della Fairchild, la società di semiconduttori più all’avanguardia nel mondo, con sede a Palo Alto, e alla fine del 1967 mi chiesero se ero interessato a partecipare a un programma di scambio di ingegneri della durata di sei mesi. Nel febbraio del ’68, io e mia moglie Elvia sbarcammo, in piena fioritura, nella valle di Santa Clara. La Silicon Valley era, allora, un’immensa distesa di orti e frutteti». 
Fu lì che la sua idea, il microprocessore, aprì le porte alla rivoluzione tecnologica? 
«Avvenne all’Intel, dove venni assunto nell’aprile del 1970. Fino ad allora i calcolatori erano macchine enormi che funzionavano grazie a transistori ingombranti, lenti, costosi e poco affidabili. Io realizzai un microprocessore, vale a dire un computer con un briciolo d’intelligenza, piccolo, a buon mercato, che consumava poco e affidabile. Si apriva un’autostrada per tutti: quell’oggetto, sempre più minuto, poteva essere utilizzato per qualsiasi applicazione. I giocattoli elettronici, ad esempio, prima non si potevano costruire perché il computer che li azionava era più grande dei giocattoli stessi». 
Mi sta dicendo che l’intervista via Skype che le sto facendo, io a Milano e lei in California, non sarebbe possibile senza la sua invenzione? 
«Sì, assolutamente. E anche il telefonino con cui lei sta registrando il nostro colloquio non avrebbe visto la luce. Nemmeno la chiavetta USB che magari tiene in tasca. Poi, certo, non l’avessi inventato io, prima o poi ci sarebbe arrivato un altro». 
Lei è, in sostanza, il mago del piccolo... 
«Andiamoci piano con la parola mago. Sono un ricercatore che quando vede un problema apparentemente irrisolvibile non si dà pace fino a quando non ha trovato una soluzione. E non sempre ci riesce». 
Non fosse andato a Palo Alto, in Italia sarebbe stato tutto più complicato, o sbaglio?  
«Non creda che negli Stati Uniti sia tutto rose e fiori. Mi scontrai subito con la sindrome NIH, vale a dire Not Invented Here (non inventato qui). Nelle grandi imprese vi sono diversi gruppi di lavoro e ciascuno di questi, per principio, si rifiuta di mettere in pratica l’invenzione di un altro, anche se avvenuta all’interno della stessa azienda. Così impieghi più tempo a far accettare la scoperta che a farla. Inoltre, la ricerca e la realizzazione dei prototipi richiedono investimenti e i soldi li ottieni solo dimostrando che quell’invenzione farà decollare i fatturati. Dovendomi occupare anche della parte imprenditoriale dei miei progetti, tanto valeva mettermi in proprio».
 
Ha mai incontrato Bill Gates e Steve Jobs? 
«Sì, certo. Uomini di grande spessore e genio ma con i quali sentivo di avere poco in comune. Erano competitivi fino all’estremo. Dovevano vincere a qualsiasi costo. Qui dove vivo, in California, ho fatto qualche esperienza “ravvicinata”: con un puma, con un branco di coyote, venne persino avvistato un nido di serpenti a sonagli. Ma non mi sono mai sentito tanto in pericolo come quando ho avuto a che fare con manager che dovevano per forza essere i primi. Negli anni Ottanta, con una delle mie società realizzai un prototipo di telefono che, collegato al personal computer, risolveva molti dei problemi che si ponevano ogni giorno ai manager, vale a dire programmare incontri, essere sempre in contatto con i propri dipendenti e così via. Quell’anno, il 1984, vinsi il premio per l’idea più innovativa. Jobs mi fece i complimenti e disse: “Bello, ma troppo ingombrante”. Aveva ragione, e molto più tardi nacque l’iPhone. Qualche tempo dopo, il mio gruppo di lavoro realizzò i prototipi del touchpad e del touchscreen, destinati il primo a soppiantare il mouse e il secondo a realizzare telefonini più efficaci. Il touchpad venne subito adottato nei computer portatili, mentre il touchscreen, presentato più tardi a società di telefonia, venne giudicato inutile. Lo capì solo la Apple, ma voleva l’esclusiva. Era assurdo, non accettammo. Jobs andò avanti per la sua strada e riuscì a realizzarlo in casa. Per noi fu tanta manna: iPad e iPhone aprirono un mercano immenso e chi prima ci aveva snobbati, venne poi ad acquistare i prodotti da noi». 
Come se la cavò da imprenditore? 
«Uscito dall’Intel fondai la Zilog: nel 1976 eravamo in 11 e non sapevamo come pagarci gli stipendi. Nel 1979 avevamo assunto 1.100 persone e aperto fabbriche in giro per il mondo. Nel frattempo era avvenuta la rivoluzione. La Apple aveva aperto il mercato dei personal computer per i privati; l’IBM la seguì a ruota per il mercato aziendale, finendo così per perdere il controllo della situazione e rischiando addirittura di fallire. Aveva gettato una bomba senza accorgersi di averla lanciata troppo vicino e ora si stava prendendo tutte le schegge. Comprai a 12 dollari azioni IBM che in passato avevano raggiunto quota 200». 

Lei era ormai un uomo ricco... 
«Vendetti la Zilog e fondai altre start up. Avevo guadagnato abbastanza da smettere di lavorare, ma il mio motore non sono i soldi. Nel 1986 cominciai a interessarmi di intelligenza artificiale utilizzando le reti neurali. Dicevano che erano stupidaggini, fantascienza. Nel frattempo, però, dentro di me stava accadendo qualcosa. In base ai parametri sociali dominanti, avevo raggiunto tutto ciò che occorreva per essere felici. Invece ero più insoddisfatto di quando avevo cominciato. Avevo contribuito a creare macchine che, secondo la vulgata comune, prima o poi avrebbero fatto meglio dell’uomo. Ma proprio questo materialismo, secondo il quale tutto si risolve sul mercato, mi sospingeva in una profonda crisi». 
Non credo che la Fisica potesse venirle in soccorso. Forse la filosofia di suo padre? 
«Sbaglia. Da allora, grazie alla Fisica quantistica, ho aperto gli occhi, ho avuto come un risveglio. Con mia moglie ho creato una fondazione che si occupa della natura della “consapevolezza”. E non credo si tratti di un problema filosofico. Studiando le neuroscienze mi sono convinto che nessun segnale elettrico potrà mai generare emozioni. Quindi, al contrario di quanto sostiene la maggioranza degli scienziati, sono certo che il computer non potrà mai essere consapevole». 
Cos’è la consapevolezza? 
«Il mondo che osserva se stesso. La natura della consapevolezza è qualcosa di assolutamente straordinario. Ne hanno capito di più i mistici degli scienziati, ma solo perché questi ultimi hanno cominciato a pensare come macchine, e il mondo interiore controlla il comportamento esteriore. Ecco il dramma del nostro tempo: se ci convinciamo di essere macchine finiremo per diventare macchine, riducendo l’universo a formule matematiche senza senso. L’altro grande problema è quell’idea che ci ha inculcato Darwin: il più forte vince sempre e si prende tutto. Ha contribuito a svilire ogni valore di umanità». 

Lei cerca di smontare ciò che ha contribuito a costruire. Si sta forse rivolgendo più alla religione che alla scienza? 
«Non sono anti-scientifico: la scienza ci porta più vicini alla verità, le religioni ci portano più vicini alle guerre. Non intendo sostituire dogmi con altri dogmi, voglio solo esplorare, con metodo scientifico, una verità più vasta, quella spirituale, ancora sconosciuta perché la scienza sostiene non sia di sua competenza».