il Giornale, 29 aprile 2019
L’ultimo giorno dell’imperatore Akihito
L’ultimo fu Kokaku. Lasciò il trono dell’Impero nel 1817, per il Giappone furono giorni di lacrime e di crisantemi. Due secoli dopo è l’ora di Akihito che abdica al figlio Naruhito e ritorna nella dimora antica, dove sessanta anni fa, proprio nel mese di aprile, portò a nozze la moglie Michicko, niente affatto nobile di censo, figlia di un imprenditore del settore alimentary, conosciuta su un campo di tennis e subito innamorata di quel signore piccolo di statura ma di imperiale animo. Michicko ha vissuto come impongono le leggi del Kunaicho, una casta di burocratici che scrive norme e regole della casa imperiale. Dunque la consorte di Akihito ha dovuto stare sempre tre passi dietro l’imperatore, non potendo disporre di telefono privato, di denaro, di documenti, pur essendo titolata di laurea a Oxford e Harvard. Un giornalista inglese, William Langley, l’ha definita una farfalla con un’ala spezzata.
Akihito è il simbolo del Giappone in pace, il suo ruolo politico ha seguito questo indirizzo dal giorno in cui suo padre Hirohito, il leggendario imperatore che visse e soffrì il conflitto mondiale, gli affidò il compito, non più divino ma ugualmente storico, anzi epocale, di guidare il Paese. Hirohito amava il mare e le meduse, le studiava, le collezionava. Così suo figlio con i ghiozzi, pesci a due pinne sui quali Akihito ha scritto e illustrato anche con la classificazione (tassonomia) di ogni specie al punto che un ricercatore gli ha dedicato una nuova varietà, con il nome di Exyria Akihito.
Ma non è certamente per queste sue passioni, il tennis e l’ittiologia, che l’imperatore abbia occupato la storia e la cronaca del Paese ridestandolo da una tradizione, spesso, troppo antica. La sua è stata una missione per restituire al Giappone la luce offuscata dai misfatti della seconda Guerra mondiale, nei confronti del popolo cinese e coreano, ritornando sui luoghi di quei giorni terribili, scrivendo poesie dedicate ad Okinawa, il teatro di sangue e di morte tra il marzo e il giugno del Quarantacinque, giapponesi e americani in crudele battaglia. L’Imperatore ha conservato i riti del popolo, piantando ogni anno, da solo, con le mani, il riso, simbolo di un Paese e della sua storia. Fukushima, i terremoti e gli tsunami hanno sconvolto e squarciato una terra meravigliosa, la coppia imperiale è stata sempre presente sui luoghi della tragedia, impegnandosi finanziariamente, restando vicino al popolo ma non offrendosi, mai, a una confidenza pubblica, altrove ormai ordinaria, tra selfie e bagni di folla. Anche se non più «divino» l’imperatore resta una figura intoccabile, quasi immaginaria, fantastica però presente, indispensabile e necessaria nella vita per ogni giapponese.
Il Palazzo imperiale e i giardini, nel quartiere Chiyoda, sono pronti all’evento. Questo è il cuore del Giappone, quella dimora e quel parco immenso che si sviluppa per ventitremila metri quadri sono stati valutati per una cifra superiore a tutte le unità immobiliari della California. Il palazzo, semidistrutto nel Maggio del Quarantacinque e ricostruito, per la gran parte, in cemento armato, non gode certo dei privilegi clamorosi del nostro Quirinale che ha un’estensione di centodiecimilacinquecento metri quadrati e coinvolge milleottocentosette dipendenti contro i duecentodiciannove a disposizione di Akihito che ha costi per il personale pari a quartantacinque milioni di euro all’anno, contro i duecentoventotto nostrani. Tutto ciò per dare dimensione al fenomeno, quasi unico, dell’imperatore e all’evento che porterà, a Tokyo, Trump e signora, insieme con altri capi di governo e di Stato. Il giorno è arrivato, il sole non tramonta, è il momento di Naruhito e di sua moglie Masako Owada, già invisa ai burocrati del Kunaicho e poco amata dal popolo che non l’ha mai vista presente sui luoghi delle sofferenze. La festa è comunque pronta, rigorosa, puntuale, severa. I sakura, i fiori di ciliegio, colorano di rosa la città.